Amèlie Nothomb, Nè di Eva nè di Adamo
LIBRI- Accade talvolta, fra coloro che praticano il mestiere della narrazione, di cedere all’istintuale pulsione di servirsi della propria storia per appagare l’esigenza di raccontarne una. In questi casi l’esito è quanto mai incerto, e l’effetto altrettanto rischioso: nondimeno capita che il reale dipanarsi degli eventi si carichi di una valenza romanzesca tale, che il solo avvalersi della testimonianza di qualsiasi
furor poetico, lungi dall’apparire un patetico cedimento alla memoria, si impone come il naturale corrispondere alla vanità dell’arte. Non nuova a questo esercizio, Amélie Nothomb anche per questa sua ultima pregevole opera rovista con mano compassata nell’errabondo bagaglio del suo vissuto.Dopo aver abbandonato il Giappone all’età di cinque anni, la scrittrice ormai ventenne decide di farvi ritorno col suo viatico di intenti e timori. Poco dopo il suo arrivo conosce Rinri, che a dispetto dell’evangelica assonanza onomastica, è un facoltoso e garbato studente animato da un certo interesse per la lingua francese. Prendendo a pretesto le lezioni i due instaurano una relazione fatta di condivisione e complicità, che li condurrà attraverso una suggestiva geografia di esotici piaceri (non pochi quelli gastronomici), di fuggevoli curiosità, e surreali luoghi del ricordo. Ma l’attrazione si sa, è una creatura bislacca che si nutre di tare, di imperfezioni e insostenibili storture: così, mentre il virgulto nipponico con paciosa e appassionata delicatezza cederà il capo alla lusinga amorosa, la sentenziosa Amélie ripagherà quell’onorevole slancio con l’afflato di una dilettevole amicizia, ricorrendo ad una fuga finale per sottrarsi all’improvvido proposito di essere inanellata.
A guardar bene la scrittrice si mostra inabile a capitolare di fronte alla spinta di trazione del suo koibito, e con stile sorvegliato e anche un po’ beffardo si produce in quella che vorrebbe essere una palinodia della fuga, ma somiglia più a una resipiscenza del controllo, a un gioco esorcistico della propria consapevolezza (si noti il tono dell’epilogo, è quasi rivelatorio). Pertanto il romanzo tutto assume l’aspetto di una sinopia preparatoria disposta sapientemente per l’addivenire del momento del distacco, del dileguo. Quest’acuto(a) Zarathustra, che nell’ascensione (l’inverso della caduta) delle sue vette si ritrova a languire nei paraggi del baratro (d’amore), si avvale della fuga per disfarsi non dell’oggetto erotico ma della propria inattitudine a cedere a quell’impeto, ad accogliere l’ansito del peccato primigenio.