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La pancera, il distillato, le ampolle, gli strappi

il7
[IL_7 SU…]

il7E’ inutile che facciate della facile ironia: il Giorgio Panzera Quartetto non è un quartetto capitanato da un panzone con la pancera, ma un accordo tra gentiluomini che si richiama agli Avion Travel.

Una chitarra ed una fisarmonica solfeggiano tra i profumi confusi di mille ricordi tra cui il treno di notte procede con tenue cadenza sferragliante, mitigato dalle profondità delle ore dell’oblio, e la voce in un sussurro appena un po’ tremulo ripercorre “storie d’amore, di libri, chitarre e canzoni, di troppi pensieri – storie di ieri”. Il “pizzicato” è un dolce solletico sulla linea delle spalle, la fisarmonica è da chansonnier immalinconito dall’età che avanza, ed avanza come “il treno di notte corre veloce nel buio dei campi senza luce”; ma quasi in trance, invece di consumarmi nel fumo d’una sigaretta, “sui vetri bagnati disegno un profilo; sei tu” (“Il treno di notte”). “Quindicianni” sono un groppo in gola destinato a restare bloccato nel tempo e traGiorgio_Panzera le note mentre la vita ci conduce altrove rispetto a quell’incertezza puberale che si esprime per lo più senza parole: “quindici anni e tanti altri poi per poterti aspettare perchè se mi guardi ancora un minuto non so più che fare”. La formazione classica di Giorgio Panzera si traduce talvolta in un tappeto d’archi ed in una sospensione in bilico sulle emozioni, che ci trattiene dal procedere ciechi nell’abisso della superficialità: ogni respiro è valorizzato da un pensiero cheto che assa-pora anche le briciole che non ci sfamano, anche “L’ombra dai piedi” che s’allunga a toccare le cose contaminandole con la nostra presenza in dubbio, mentre “L’Africa d’Italia” è un saluto alla Sicilia, “che appare e scompare, dalla cresta dell’onda si tuffa in mare”, “com’è lontana!”, come le speranze per il futuro viste da un barcone di immigrati. Rarefatte fissità del sentimento (“Mai ti dirò”) che s’effondono in pigre ondate prodotte da strumenti sognati.

Rumore_biancoRumore bianco prende forse le mosse dal film “White noise”, non credo dal cosiddetto “white album” dei Beatles, ma forse dal capolavoro del proto-noise rock “White light, white heat” dei Velvet Underground e sicuramente dal fenomeno delle “voci elettroniche”, fenomeno paranor-male consistente  nella manifestazione di spiriti dei trapassati o intelligenze aliene captabile at-traverso strumenti elettronici dalla radio alla TV al computer, passando per le registrazioni magnetiche. Se i Rumore bianco sono così attivi, non è tutta pseudo-scienza; evidentemente i ragazzi si sentono le spalle coperte da “qualcosa” di inafferrabile! “Tu in viaggio, io alla deriva” è un pop etereo affidato alla narrazione del superfluo cantata da una voce femminile dolce e penetrante; sono questi i suoni suadenti e la frammentazione diffidente delle relazioni di coppia che un giorno ci rapiranno verso l’empireo? Lo stanno già facendo: “La vena non si gonfia e anche tu mi sembri fiacco, ma al mare non ti annoi mai? E’ inutile contare su di te (…) Ti orienti con la voglia”. Le percussioni animano un distillato ipnotico di tastiere, vitree come uno sguardo assente. In “Io molto spesso sbaglio” si ascolta: “Se tu mi lasci andare potrei farmi molto male” mentre la chitarra insegue i poltergeist dentro bolle di sapone e la fanciulla espone le sue fragilità con parole preoccupanti, ma forse è solo un gioco insano. “Meno stanchi” si sentiranno forse quei due in primavera, quando saranno leggeri come polline, “o forse non ci apparterremo più ed avremo anni da raccontare”, ipotizza la cantante, la cui malinconia non è un nemico ma che sicuramente ce la butta addosso con questo discorso ad un amico chissà quanto affettuoso. Arrangiamenti calibrati, molto attenti e morbidi, un carezzevole passaggio di nubi poco dopo l’alba, non certo lo spleen violento e urbano di Lou Reed e compagni, ma un po’ d’elettronica opalescente e aliena c’è. Sentite le voci, per caso?

Atome primitif con “Indu” hanno conquistato perfino il Bangladesh, ma forse giova descriverloAtome_Primitif qui come un inghippo sonoro mirato prima ad introdurre liquidamente l’ascoltatore nel mondo oscuro e sballato dei componenti di questo gruppo cripto-elettronico-alternativo, per poi scuoter-celo dentro grazie alle alte frequenze della voce della vocalist, Azzurra, che si levano al di sopra di un groove dark, hard e funky che non nasconde affatto le insidie di una foresta di gangli elettrici e linfonodi lucidati col vetriolo. “Machine” è un apparato sonoro mastodontico in funzione giusto per avanzare pesantone lungo un percorso chiuso che va dalle porte della percezione ai cancelli del delirio. Le sonorità sono scatolari e telluriche: la ricerca di un ritmo underground che trattenga i nostri incubi più claustrofobici viene proclamata dalla voce di Azzurra, intrappolata da un filtro meccanografico. “Morning rain” è un pezzo che si evolve dalle gocce ambientali che si depositano sui cristalli di una vetrata scorrevole mentre, all’interno, un romanticismo infido sgoc-ciola da tutti i rubinetti e la chitarra elettrica lo arrota facendone un sostegno tagliente ed incerto. “Amorepsyche” scivola su un drappeggio pianistico, mentre i rintocchi di basso segnano la gravità della situazione con battiti di palpebra inseriti su un tappeto di keyboards costante, e la voce incantata tenta di giustificare manie compulsive e contraddizioni stridenti senza sbroccare, per il momento. Ci piace anche il trattamento delle percussioni sul finale della andante “Mehrez” e la sbrigliata ricerca di involti spettrali all’interno della “Cenci’s Tower”, una autentica trappola techno in cui i discotecari si ingorgano senza trovare una via che non porti di nuovo all’entrata. La voce di Azzurra sembra placarli, ma è solo un placebo, un effluvio che fuoriesce da raffinate ampolle sonore.

Astrid_HotelGli Astrid Hotel iniziano con un drumming interessante, volutamente macchinoso, il brano “75 cl d’aria” portando avanti la descrizione di una sinistra monotonia tra campanelline da central hall di una stazione indocinese, rallentamenti che inducono a riflessioni incoerenti ed un crescendo che porta ad una momentanea esplosione di furia incontinente dopo la quale non resta che la lunga sfumatura, cioè il ripiegamento su un meccanismo di incapsulamento che porta alla paranoia anche le cameriere dell’hotel (leggere gli interventi sul myspace per capire meglio la cameriera ed i suoi sorrisi da adescatrice). A proposito del myspace, i sample presenti non mi aiutano a seguire il filo d’una psichedelìa indie che intesse virulenze chitarristiche e distensioni esanimi di pieghe di un passato finito, ma capace di sollevamenti verso ineluttabili assoluti (“Ultimi giorni”) e scardinamenti inevitabili del self control. I due brani ascoltabili nella loro interezza consentono invece di formulare un giudizio severissimo (?) e compiaciuto che tiene conto sia della loro ca-pacità di mettere la tecnica al servizio di una visionarietà a strappi grunge seghettati e variegati, sia di una strumentazione pregnante che chiama in causa tutte le frastagliate apparenze di una realtà che ha bisogno del rock più emotivamente convulso per trovare il coraggio di mostrarsi così com’è: storta!

il_7 – Marco Settembre

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