Reagan, er mitraja, il bombo e i transformer
[IL_7 SU…]
The Jungle Tribe con “Insane” sbrigliano le chitarre portandole al pascolo sulla dorsale appenninica tra scapigliatura calabra e dinoccolamenti punk, ma non basta: la voce sguaiata del sicuro vocalist, con l’appoggio dei controcanti dei suoi compari, si lancia nella vocalizzazione di versi anch’essi a cavallo tra lo sberleffo al pubblico e la concatenazione yé-yé di interiezioni che sembrano francofone…
…non si capisce nulla ma è giusto così perchè non c’è nulla da capire tranne l’impulso irrefrenabile a borchiarsi i calzini in allegria e tagliarsi la maglietta con le forbici per infilarci dentro il poster di una Brigitte Bardot adolescente scovata a Capo Palinuro mentre faceva l’hula hop in una balera. “Train” ha un beat più lento ma secco e potente, ed il tono è più malinconico, probabilmente segue l’andirivieni ferroviario che sballotta vite su e giù lungo estremi fatti di attese deluse e bisogni negati più che di bagagli cognitivi; la voce non recede dalla sua posa di scugnizzo di Sheffield che oppone la sua acerba durezza agli spasmi in arrivo, mentre il primo assolo, troppo breve, è un assaggio del secondo, che cerca di scuotere le croste di rabbia via dalla giacca. “Heart-head” è puro rock’n’roll for today’s riots che si sforzano di non infiacchirsi per essere nati sul finire degli anni ’80, ma di reagire alle avversità come hanno fatto col secondo mandato di Ronald Reagan, ovvero con il clangore schietto e provocatorio dell’intro, con la batteria come appoggio costante e preciso, e con l’orecchiabilità straight che contraddistingue an-che “Grow young”, marcata dai rimpalli tra voce solista e coro e tra drumming e solo di chitarra, tutti e quattro felici di essere così, sbruffoni, con i polsini fradici e con la linguaccia di fuori rivolta alla Thatcher.
I Fermata 93 sono: il cantante perso, il chirurgo (??), er mitrajetta, il bassista coatto ed il biondo (questi i nomignoli che si assegnano negli album fotografici del loro MySpace), e in alcune foto “se la scoattano” visibilmente perchè ormai decidono loro dove sarà il capolinea e quando far ripartire il carrozzone. Partiti da una riunione di quattro ore in cui si arrovellarono per stabilire il nome del gruppo, e pervenuti alla decisione che loro erano quello che facevano ed i posti che bazzicavano, hanno conseguentemente nominato Fermata 93 la loro squadriglia perchè era come se il gruppo ci fosse sempre stato, come se li avesse sempre aspettati per imbarcarli a bordo prima di vederli partire verso casa o verso la scuola, o verso una lunga tournèe intercon-tinentale. La resa live di “Gabighetto”, testimoniata da un video su Youtube, è ottimale: il vocalist sembra un capopopolo e snocciola con sfrontatezza i versi, il ritmo è inarrestabile e ogni tanto je parte de mitraja mentre la chitarra solista ci sparge sopra assoletti e riff sonori di protesta a go-go, che costituiscono il “core” melodico di questi sfoghi logorroici in musica contro chi ci aggro-viglia le budella con le sue simpatiche trovatine ad personam. Sul loro myspace non c’è neanche un brano, in verità, ma loro s’appoggiano su YouTube perchè reggono la scena ed il confronto con altri rapper tipo Fabri Fibra gasandosi come sciamannati: “Gioia maledetta” – un pezzo contro l’abitudine di rimpinzare di pasticche di psicofarmaci i ragazzini appena rovesciano qualche banco a scuola o hanno deficit d’attenzione durante l’ora di chimica – viaggia intorno alle 670 visualizzazioni e l’obiettivo è quota 1000, raggiunta la quale i guadagni per i Fermata 93 saranno tanto elevati da permettere loro di pagarmi anche due mesi di ferie a Formentera.
Murga Patas Arriba sono solari, tribali e caldi, e con “Guaguancò”, “Herederos de la locura”, “Patas Ariba” e “Treno” accumulano strati di formicolanti e tambureggianti attacchi d’arte percus-siva e la rullano frementi preferibilmente in ampi spazi, dove la loro energia ed i volti pitturati e le vesti variopinte degli interpreti contaminano tutto quel che trovano con una frenesia carna-scialesca e dionisiaca che fa vibrare sia le pelli dei tamburi che le pelli di eterogenea origine segnate da brama di vivere, il tutto agitando in una frenesìa coloratissima e poliritmica tutta quella cultura popolare in sofferenza (immigrati europei in Argentina ed ex schiavi neri africani) che già nei primi decenni del 1900 riusciva ad esplodere con strumentazioni artigiane: bombo con piattino (una sorta di grancassa con un piatto di ottone in cima, colpito dal musicista con un altro piatto), e poi zurdo, rullante, repique e il tutto accompagnato da danze frenetiche, con uno stile salterino e scalciante che simboleggia una rottura dello spazio e l’irruenza giocosa e liberatoria di un corpo orientato a dare scandalo e svegliare gli animi sopiti utilizzando anche sberleffi teatrali e scambi verbali di contenuto satirico, volti a sbeffeggiare i padroni. Il perfetto murguero argentino infatti indossa la levita, un frac confezionato con raso colorato e abbellito da nastri e mostrine, più gilet del padrone indossati al contrario e cappelli a cilindro cinti da collane ai quali, per motivi personali noi aggiungeremmo penne di tacchino e pezzi del corredo nuziale.
I Trek fanno musica con gli scarponcini da trekking, ma la robustezza delle loro interpretazioni non esclude affatto la modulazione emozionale degli ascoltatori, che si sentono sollevare l’animo più animale in onde urgenti di empatia che giungono fin sulle vette di distorsori alti come palazzi per poi frangersi giù sui ricordi più misti ed agrodolci come uno tsunami di furente rigogliosa bellezza (‘”I lose my head”). Il loro power pop si avvale di smanettature chitarristiche all’aceto e rhum, che all’occorrenza danno una vibrazione contrappuntata adatta a trasmettere un nervosismo pronto allo scatto, e si giovano anche di una voce svettante al di sopra del magmatico e ritmico stream of unconsciousness che fa tremare i loro pezzi all’unisono con i nostri cervelli incatramati dalle freddure del Cavaliere, ed infatti è a loro che verrebbe da chiedere: “Release me”! Scariche intermittenti ci tengono non sulla corda ma su un cavo d’acciaio in attesa che prendano forma le sezioni più andanti e fluide della conflagrante e disperata “Defection of my soul”, ciò che potrà capitare ad un banchista del mercato ortofrutticolo il giorno in cui penserà d’aver sposato una ex amichetta di papi stra-usata e caduta in disgrazia. Il modello dei Faith No More riecheggia isterico e trionfante in “Much too High”, che macina avventure urbane a cavallo di robot transformer sotto un cielo nero di elycopters dei servizi segreti che cercano di abbattere i prototipi delle macchine belliche prima che i Trek li usino come amplificatori per le loro sgrullate rabbiose da Star Trek in rovina. (http://www.myspace.com/ENJOYTREK)
Il_7 – Marco Settembre
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