Quattro salti a Knockemstiff la domenica
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Quando uno non sa più con chi prendersela, dovrebbe prender su dalla dispensa un due-tre scatolette di tonno in vista dell’ora di pranzo e tornarsene a Knockemstiff una domenica per restarci fino a sera bighellonando a vacca e ripensando a come mai si ritrova così, a come è iniziato tutto quel rotolarsi giù lungo il pendìo brullo delle giornate. Non ci sarebbe granché da divertirsi, ma almeno il ping-pong nel cervello si potrebbe condurre con una certa calma, giusto un po’ affranta.
Knockemstiff è il primo libro importante dell’anno, ha scritto qualcuno, e qualcun altro potrebbe soffermarcisi più del necessario. Le cittadine fantasma dell’Ohio, se non le prendi col dovuto distacco, ti risucchiano in una vita proletaria che si ammucchia sui piccolo borghesi fino a farne un crocicchio di case e di storie connesse tra loro e sconnesse, prese una per una.
Alle 21:00 di domenica 8 febbraio 2009 al Circolo degli Artisti di Roma si è tenuta la presentazione di questo volume salutato come un prodigio dalla stampa americana ed articolato in racconti a concept: Knockemstiff di Donald Ray Pollock.
In Italia è uscito a cura di Elliot Edizioni, con un’ottima veste grafica e a Roma è stato letto al pubblico da Francesca Daloja, Giordano Tedoldi e Vasco Brondi. I tre hanno rispettivamente letto il primo racconto, “La vita com’è”; l’undicesimo, “Disciplina”; ed il diciottesimo ed ultimo, “Combattimenti”.
Di fronte ad una platea attenta, il reading si è svolto in un’atmosfera di raccoglimento da funzione privata, e le letture sono state ampie, non una semplice selezione di passi. Il primo capitolo riguarda la notte in cui, per una famiglia non proprio modello eppure a suo modo esemplare, la visione di un film di Godzilla in un drive-in viene, più che rovinata, sostituita dalla dimostrazione cruda, offerta dal padre esecrabile al figlio, di come si fa del male a qualcuno. L’iniziazione ha successo, e d’altronde il padre detestava i film, “Che diavolo c’è che non va nella vita com’è?”. A volte tutto, e anche Godzilla saprebbe cambiarla solo schiacciandola sotto le zampe, se uno che beve Old Grand-Dad dal portacenere dell’auto non accetta da nessuno lezioni su come si deve parlare.
La voce di Giordano Teodoldi non era in buone condizioni, ma comunque senza risparmiarsi in termini di grintose salite di tono, ha prodotto la seconda lettura, dedicata all’episodio in cui il proprietario dell’unica palestra di pesi dell’Ohio meridionale, e lui stesso culturista fanatico, sforacchia personalmente il figlio con iniezioni di steroidi, lo rimpinza di creatina costringendolo per il resto ad una rigida dieta, e lo invita a tener duro gridando “South Ohio!” ogni volta che quello vomitava, convinto che “Nessuna sofferenza uguale nessun cazzo di miglioramento”. Ma andarci giù parecchio duro con la disciplina, a parte le doppie dosi di lassativi, non sarà la via più facile e comoda per i finocchietti, ma in compenso può essere anche un impervio sentiero verso l’autodistruzione.
La terza lettura ha avuto come oggetto le pagine conclusive, in cui un uomo sulla via del riscatto pur tra contraddizioni residue rimette piede nella casa dei suoi vecchi dove trova il padre col cuore malridotto intento a tifare contro un nero in un match di pugilato di quart’ordine trasmesso dalla TV e gode a farsi temere come quando era un duro. “Quel negro si sta prendendo un cazzo di suonata”, dice l’anziano incarognito; l’altro figlio, il più amato, vivacchia sregolato e la moglie pensa sempre che il marito stia peggiorando sotto il profilo della cattiveria come se un tempo fosse stato migliore. Il protagonista, che come l’autore, aveva anche lavorato in una cartiera, pensa: “Ero cresciuto lì, ma non mi ero mai sentito a casa”. Sarà così, ma anche i momenti di disgusto non sempre bastano a far levare le ancore.
“The Telegraph” ha scritto: “Per darvi un’idea precisa dell’incredibile debutto di Pollock, imma-ginatevi lo scontro tra un Ernest Hemingway vissuto sempre nelle foreste e un Raymond Carver sotto amfetamine”. Chuck Palahniuk ha osservato che “Donald Ray Pollock scrive pagine anche divertenti su personaggi tristissimi, o viceversa”, senza farci sapere quale modalità preferisce. Di certo in un mosaico come questo, fatto di terra e di fango, di ruggine e di sangue, è agevole trovare in ogni tessera una tremenda solitudine anche quando le anime di cui si parla hanno il loro modo buffo di aggirarsi tra queste pagine di provincia americana, senza fronzoli eppure niente affatto prive di appeal letterario. Infatti la partecipazione emotiva che lega affettivamente l’autore ai suoi personaggi spesso rovinati o arrancanti lungo una pista di routine o consumati da intimi attriti, rende Pollock anche accostabile a nomi come Joe Fante o John Steinbeck.
Pollock in questa frazione dell’Ohio senza attrattive evidenti c’è nato e cresciuto poco più di cinquant’anni fa. Ha lasciato la scuola a sedici anni per lavorare in un macello, per poi passare trentaquattro anni come operaio di una cartiera. Ci piace immaginare che l’ottusità organica di un simile scenario di alcoolismo, violenza quasi gratuita e passività dilagante deve essere stata osservata da lui con una coscienza neorealistica ed un umorismo un po’ sgomento, ma è più probabile che ci sia stato immerso senza distinguersene nemmeno, fino a quando ha sottoposto i suoi primi scritti a qualche docente (citato nei ringraziamenti, insieme all’editor) nel corso di uno stage universitario al quale aveva partecipato per ottenere una riduzione dell’orario di lavoro. Donald, che ora scrive a tempo pieno, vive con la moglie a Chillicothe, in Ohio, non lontano da quel che rimane di Knockemstiff, come se volesse continuare a produrre letteratura spremendo i suoi ricordi con la stessa essenzialità con cui un pasto frugale è preparato e poi consumato dalle stesse callose e sincere mani.
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