La nonna di Johnny al rogo del music-hall con le smanie dark
[IL_7 SU… ]
Dennis Bertolini trae la sua forza dalla capacità di mettere in commedia quello che per molti è grave come la morte del gatto, ovvero la taglia ridotta dello Stivale, che, essendo bagnato, dentro la tomaia s’è tutto accartocciato, e mica da ieri. La sua insofferenza per le calzature vecchie e usurate (‘Mi sta stretto lo Stivale’) ben si concilia però con la sua tendenza a bistrattare le debolezze umane col sorriso malinconico di canzoni che, sotto forma di favola, suggeriscono ansie concrete.
Bertolini, tanto per dirne una, spinge a far confronti improponibili, nel suo repertorio, tra la nonna (‘Nonna Blues’) che, sorda come un tonfo, sente due parole a settimana ma vede Derrick in TV e si comporta come una vera signora, e le signorine dannate (‘Le gambe di Consuelo’) in tacchi a spillo e minigonna che ci attirano nelle spire di un destino simile ad un gorgo di Maelstrom riducendoci a quattro zampe magari sul fondo dell’oceano. Non è il caso però, di corteggiare il pubblico degli anziani perchè, vista la composizione demografica del paese, costoro potrebbero avvantaggiarsi spocchiosamente della loro posizione di maggioranza e rifiutarsi di ammettere che chitarra (Simone Alfonsi) e pianoforte (Marco Ravallese) esprimono vicinanza a tale poesia ma sanno cogliere anche il momento giusto per lanciarsi in brevi divagazioni, forse per distaccarsi da tali levissime parabole e ritagliarsi uno spazio delizioso nell’arrangiamento can-tautorale attento e sensibile. L’approccio acustico, che sfoggia una certa distinzione guadagnata attraverso l’equilibrio, trova un’eccezione in “M’è morto il gatto”, in cui il ritmo funky ed una effet-tistica garbata sottolineano la pesantezza di una situazione nazionale in cui i figli di ieri si dice che ragionano male perché nutriti con il Lego, ed i gatti di oggi invece sono tanto ben rifocillati da pensare di raggiungere la Luna con un salto dalla finestra. Non si sa più se “limitare questi sogni” o usarli per fermare le lacrime d’una fanciulla (“Piangi sempre”), nella speranza che abbia orecchie per ascoltare perfino l’eco del suo cuore gemello e non faccia come la Laura di “Caro Petrarca”, che illude, rimanda, tormenta e svanisce, ma come l’altra, quella giusta: ascolare per ca-pire (www.myspace.com/bertolinidennis). E chi non ce la fa, eviti almeno di chiedere soldi in prestito al fratellino che fa la quinta elementare, per andarsi a comprare il ketch up, altrimenti non riuscirà mai a rendersi antipatico.
The band of Johnny anche dall’acqua ristagnante dentro vecchie barche a remi lasciate ormeg-giate lungo il fiume senza copertura durante notti piovose e senza luce riesce a cavar fuori l’ umore fluido necessario non solo per scolarsi una birretta in compagnia d’una vecchia amica sciroccata, ma anche per mettere insieme uno schietto blues, masticato o pigrotto, baldanzoso o incupito dalle minacce di rogna volante, ma comunque blues dell’anima, quello che ti entra dentro dalle orecchie assuefatte allo stridore dei freni, e poi ti trasuda da tutti i pori come il sudore dopo una corsa nei campi di grano a giugno con il contadino che ti insegue brandendo la vanga perchè di nascosto hai fotografato una vacca al pascolo. La chitarra si raggomitola e si snoda come un vecchio nastro fuori dalla cassettazza fusa sopra il cruscotto della Volkswagen giallo paglierino, e la voce pianta lì armonie “Homeless”, nel senso che abitano dovunque appoggino il cappello, e queste fioriscono come racconti tutti veri, anche se si confondono con il ricordo dei giorni che li hanno generati stingendocisi addosso come cappotti laceri da non spolverare mai. Se sei fortunato scopri dopo poche note che tutti quelli che non ti fanno innervosire sono dei Johnny, il pacifico Johnny che quando lavorava faceva il suo, e che quando scioperava pensava anche agli altri, e quando amava lo faceva in buona parte per chi lo rendeva un ragazzo fortunato la dome-nica, e non alludo al prete, che voleva sempre impicciarsi un po’ troppo dei suoi pensieri tristi senza confidare quelli impuri che aveva lui. In “Sunday morning” il ritmo però si fa più pesante e avventuroso, memore di quella volta che Johnny si trovò nei guai perché due ubriachi lo accusa-rono di essersi pulito le scarpe sulle maniche delle giacche; poi si seppe che era stata la guarda-robiera del locale che, gelosa di una prostituta amica del manager, pensava che le giacche fosse-ro dei due piccioncini, ma nel frattempo l’inseguimento in macchina s’era concluso con un triplo botto dentro al fienile della fattoria di Osvaldo Chiapperino, e Sergio Arbestani, qualche minuto dopo, gonfiato di botte, finì a pulirsi la faccia nell’acqua sporca dell’abbeveratoio mentre, svelto, Johnny con una bomboletta gli spruzzava colla spray dentro i pantaloni. In un lampo di idiozia, Adelco invece fece scrocchiare la clavicola e se ne tornò a casa a piedi, senza salutare nessuno, confusamente pentito di non averci capito niente. Il mattino dopo, sunday morning, erano tutti an-cora blues (www.myspace.com/thebandofjohnny).
I MaDaMe (www.myspace.com/07madame) al vento dell’Orient Express sciolgono la chitarra, ma la loro musa ispiratrice è pur sempre uscita fuori sotto le stelle non di Zanzibar ma di un piano bar passato ai raggi gamma da un mixer rock che ha riarrangiato le linee melodiche di un Marrakech cabaret adattandole alle esigenze italiane di un nipotino visionario di Fred Buscaglione. Anche dopo 3000 anni, loro sono i tipi che restano legati ad un vago e sarcastico ricordo di Lei anche se “il tuo corpo sdraiato così è popolare” e “ti guardo ballare insieme a lui e sei uno schianto, ascolto quello che hai da dir e sei un pianto … però rimango accanto a te sotto un lume di candela che si scioglie piano come te ed io a pulire in ginocchio da te”. Ma ripulirsi da certi ricordi, no, eh?? Il piano detta il ritmo ad un mood da bordello dell’autogrill in cui l’ossessività del perpetuarsi stanco di quel dualismo rende deteriore tutta l’esistenza, malgrado l’ironia lo trasformi in una pantomima appiccicosa condita dal pianto di parole uscite da una bambola rotta, utili a non lasciar calpestare un cuore infranto. “Lo sai che” è tempestata da riccioli chitarristici che si cibano come parassiti d’una Luna che forse non c’è più: la scommessa è vinta, la Luna è stata cancellata da un jazz sfiduciato, rovinoso ma palpitante nel ritornello. Il sodo “Tango della gelosia” (“Diabolica, ma quanto vuoi per riscattare i sogni miei?”) scopre invece un mazzo di nervi tesi in un assolo di chitarra che poi frena dinanzi al dissolversi pianistico classico per mimetizzare Renato Carosone tra un gruppetto di orchestrali solarizzati al neon color rouge Marrakech, o piuttosto tra i drappi di velluto di un music hall argentino perso tra i fumi di un rogo rock dei sentimenti strumentalmente attrezzatissimo (ottima “Ferro e cartone”). La linea guida è una voce scapigliata, ma anche teatrale, che a volte coi toni sostenuti del lamento melodrammatico inghiottito, recrimina (in “Le veneziane”) sulla rabbia e la “follia d’un’amore sincero solo fatto per te“. “Donne in gondola sotto la Luna”. Ma allora questa Luna c’è ancora, ancora torna e ritorna? Questioni per uomini com-pletamente imbarcati tra la Luna, le donne, e la Matta di Denari.
Droning Maude è una realtà che non accetta di essere definita così, perché rivendica un tasso emozionale più elevato di quella dimensione spremuta da cui cercano di staccarsi. Mettono insieme visioni da cane sciolto e fibrillazioni da metropolitan thrill, sempre con un fare simbiotico rispetto alla smania che ci rende insofferenti quando riflettiamo su chi siamo e su cosa vogliamo ascoltare. Si tratta di tessiture da new wave ramificata, dall’anelito liberatorio ma auto-riflessivo di “No sooner said and done”, alla insinuante sperimentazione post-house, fredda e allarmante di “Usual old box”, all’elegia malinconica di “In the beginning was the end”, che ci riflettere su quei germi di rarefazione del senso che già all’inizio di certe faccende potrebbero far presumere il collasso di queste ultime in untuose pozzanghere di nebbia acida. E’ anche vero che l’industria ed il calcolo a volte non resistono all’avanzare di fantasie mature, ma questo tipo di evoluzioni a inca-stro si configura solo quando l’ispirazione post-romantica si esprime in sfaccettature di cristallo che lasciano solo intravedere i ruscelli rugginosi che gli fanno da contraltare. I Droning Maud (Maurizio Tavani alla voce e chitarra, Vincenzino Tavani on drums, Massimiliano Leonardi al basso, Andrea Tempesta e Marco Franchi alle chitarre) da quando la webzine Rockambula li proclamò band del mese, hanno rock-deambulato in giro seminando stupori soprattutto tra quegli impresari che girano di notte a spegnere gli amplificatori buttandoli giù dai palchi come birilli. Invece con il loro EP di fresca pubblicazione, i cinque della Valle del Salto hanno fatto strike, altro che salto nel vuoto: per una volta il mondo delle illusioni (The world of make-believe) ha restituito qualcosa di concreto a chi s’è costruito magnificamente il sound incapsulando il ripensamento dei Joy Division con una lieve e ariosa nuance dark che li fa risultare non troppo consolatori. La ridondanza delle chitarre è ben calcolata, ed il loro arpeggio si apprezzerebbe ancor di più se fosse meglio evidenziato il rapporto dialettico col basso (a parte l’ottima “Call to arms”, corposa e maliarda), ma probabilmente i Droning Maud aspettano, per questo, di arrivare al loro secondo CD, nel quale sciorineranno anche dei cambi di tempo repentini, cercando di far disperare qual-che produttore tutto d’un pezzo. Ma va benone già così!
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