I polpacci, i distributori di benzina, la sinestesìa
[IL_7 SU…]
Claudio Zilli sembra proprio un ragazzotto irreprensibile: ha un myspace semplice e commovente, senza fronzoli, ha un’immagine pulita da dirimpettaio del pianerottolo e fa del pop-folk italiano senza proprio “portarne la bandiera”, ma perché semplicemente gli riesce bene e lo fa stare tranquillo e rilassato, con lo sguardo placido, i jeans e magari le scarpe slacciate, che come si sa, danno quel senso d’incompiuto che crea fascino e al contempo fa capire che uno non ci crede troppo.
Quello che sorprende è che, dai tabulati dettagliatissimi in nostro possesso, risulti che lui si sia esibito da solo, al ConteStaccio, per tutta la serata dello scorso 14 Marzo, (anche se a partire dalle 23:30), anziché aprire la scaletta della solita terna di grup-pi/musicisti singoli. E allora questo ci porta a supporre due possibilità, in alternativa: o lui ha un tale impatto sul palcoscenico da riempire tutto il locale e mandare in visibilio la platea e richiamare una tale folla che la fila prosegue fino su Via Nicola Zabaglia, oppure quella sera c’era un’epidemia di sonno tra i musicisti e allo storico locale sulle pendici del Monte dei Cocci si è presentato solo lui che invece era ben sveglio perché era stato in letargo fino a tre ore prima! Ma perché tante illazioni? Ascoltiamo la sua musica: “Gli alieni siamo noi” è una bonaria ballad srotolata su una batteria smorzata e su una chitarra elettro-acustica serafica che esibisce un riff di apertura minimale e poi assiste al prosieguo, con la voce, che, con un sentore di quotidianità “sbomballata”, entra e protesta la sua appartenenza forzata agli alieni come noi, indottrinati dalla televisione anche su come si deve camminare, “convinti che non lo sappiamo fare, meglio i cartoni animati senza applausi organizzati”; la chirarra farcisce di musicalità fluida e bluesy il pezzo, ricavandosi anche lo spazio per un paio di assoli ben eseguiti, che danno sostanza alla svagata constatazione che siamo alienati da noi stessi a tal punto che diventa una noia dirlo e servono le backing vocals fatte in casa e i vocalizzi a richiamo – “Hariò, hariò, hariò” – per sentirsi meno passivi sul divano e riconoscersi iterativamente e bovinamente in un noi generico rassicurante nonostante tutto. “Il Sole di Roma” inizia con la chitarra ritmica che stende la polvere dei secoli sotto la placida indolenza capitolina, mentre il mandolino arpeggia più fitto vaporizzando riflessi o nuvolette di polline nell’aria calda della primavera inoltrata, e a Piazza di Spagna la gente “ti racconta storie inventate al momento per un mazzo di fiori”: la comunicativa languida ben si sposa con il vagheggiamento dei pomeriggi assolati consacrati alla contemplazione oziosa del flusso di turisti, e se ne ricava la sensazione di una proposta musicale adatta appunto alle performance da rimorchio sulla celebre scalinata; beata gioventù, pure gli studentelli più in carriera mettono i polpacci in vista e “si buttano all’im-braca” in attesa dell’incontro con l’inglesina o viceversa, del Cat Stevens del terzo millennio. E “sotto il sole di Roma, che mi troverai… sotto il Sole di Roma, amo ancora”: nell’ultima sezione la chitarra si fa un po’ slide, e appena un po’ grave in qualche accordo, come a dire che c’è anche qualche incertezza esistenziale macerata da far essiccare, con quel caldo, ma è solo un attimo, poi la solarità country blues sfavilla ancora tra i muri ocra e rossicci portando l’arpeggio a ondeggiare rapido intorno a Trinità dei Monti come le spighe di un campo di grano del deep south. “Son contento perché” ha un mood chitarristico spagnoleggiante all’ini-zio, finchè l’accordo ritmico non prende la forma riconoscibie di una marcetta da stornello campano, impreziosita da rifiniture speziate, mentre la voce confida raucamente a bassa voce come un uomo consumato dalle umiliazioni, di essere contento per quel che ha, e cioè niente, l’andamento è felpato come di chi cammina rasente alla propria ombra, ma poi il tono si apre quando viene alla luce una ragione di vita: “il mare che mi parla di lei, lei che ride sempre… non ci capisco niente..!” Quello che gli manca davvero, insomma, è “arrivare al suo cuore, le sue parole”, perché in effetti questo potrebbe essere il motore di una vera, salvifica trasformazione che porti magari la canzone tradizionale italiana ad ammiccare ad un flamenco della Cataloña, ed il protagonista della storia a diventare un capo di famiglia con la testa sulle spalle ed il calore mediterraneo fuori dalla finestra. L’arrangiamento è di precisione cristallina, ed anche la prova vocale è convincente. “Lov du maz MIX” è un altro ibrido, una ballata scalpicciante incrociata con una taranta salentina, forse, e la questione non è facilmente risolvibile perché stavolta il linguaggio stesso del testo si imbastardisce giocosamente tra inglese maccheronico, dialett’ di Barlett’, vocalizzi da paese “Oh-ohohoh!” e tono impaziente di chi va “alle sette giù in piazzett’” ma scalpita perché vorrebbe evitare di diventare un mariuolo crescendo solo a pane azzimo e olio di semi. L’enfasi da borgata salentina ispira una stanchezza delle situazioni che si trascinano da millenni sia pure con le variazioni tipo “in the surrender, lascial’a tu’ sorell’”, che sembrano moderne ma tradiscono solo la sveltezza di chi acchiappa un po’ di qua e un po’ di là e ci fa delle canzoni azzeccat’. Qualla di Claudio Zilli è una proposta non roboante ma neanche invasiva, che riempie i vicoli della vita con tessiture chitarristiche garbate e a volte raffinate, e riesce ad essere lieve e simpatico usandoci la gentilezza di non avere pretese autoriali, per il momento, ma solo un punto d’osser-vazione assai fresco.
I 7After sanno aspettare: hanno avuto una vita precedente in cui si chiamavano Black Rain, poi per qualche motivo hanno chiuso le porte in faccia al passato, nel 2003, annata che noi confermiamo come non eccezionale, e dopo un black out di sette anni hanno ripreso in mano i fili del loro destino e si sono trovati una nuova identità che già dal nome, però, portasse impresso il segno della patina adolescenziale ormai lavata via. Il gruppo si dichiara anarchico nella strutturazione dei brani, ma in soldoni vorrebbero riproporre un mix tra punk e new wave rivisitato in chiave grunge, con un output finale quindi graffiante e accattivante. I brani sono originali, più che ed i testi in italiano, aspri e polemici al punto giusto, tanto che i loro avvocati già si fregano le mani, mentre un paio di monsignori si chiedono: “Ma a questi benedetti ragazzi, ci sarà qualcosa che gli va-da bene?” Noi scherziamo, ma loro no, perché infatti, incuranti dello scarso seguito ottenuto nei concerti (come hanno schiettamente confessato), non si fanno influenzare e proseguono imperterriti con il loro “scrupoloso lavoro in studio”, innaffiato da abbondanti dosi di birra. “Non so suonare gli Stones” secondo le intenzioni si propone come una “feroce descrizione di una inetta classe di fancazzisti borghesi dirigenti di domani”, ed in effetti assistiamo ad una frase chitarristica, in apertura, che si arrota in una cappiola di fil di ferro anni ’70 con una voce scazzata acida e gli occhi che si incrociano strabici, rappresentazione satirica di mammalucchi che se ne stanno a bocca aperta a fissare il manico della chitarra, incerti se passarselo dietro alle orecchie o andare a casa a dormire; il riff stranisce l’orecchio, specie se si considera la sfumatura a suon di scarichette ritmiche sulla base della stessa tecnica di Martin Barre dei Jethro Tull in “Hymn43” da “Aqualung”. La voce continua ad incarognirsi, salda nel suo stile strafottente e abrasivo, e nella parte centrale è una libera divagazione nipotina dell’hard rock per la chitarra solistica perfida, se non fosse per la ritmica vicina al punk-ska: “Giovani pieni di ambizioni rompono, rompono i coglioni…” La classe dirigente di domani è infatti chiamata ad un precoce training delle loro capacità di dare direttive insensate e fissare obiettivi persi nel vuoto; è naturale, ad ognuno il proprio lavoro, i rockers hanno invece il dovere di sputtanarli, specie quando ancora puzzano di latte. Dopo la ripresa dell’ultima strofa, l’ultima sezione è una deriva nella distorsione, con il drumming che rallenta, intubandosi in un cunicolo, ma poi il vocalist riprende a macinare alludendo alla “selezione naturale… pensiero moderato… sogno americano”, fino allo snodo interlocutorio da cui riprende l’andamento base col tormentone “Non so suonare gli Stones”, dichiarazione incauta di qualche aspirante manager a cui, dopo la riproposizione espansa della frase, nella chiusura irsuta e caustica, il front-man risponde, sprezzante: “E sti cazzi!” “Non fermarti” parte invece come una scheggia, col riff ritmico frenetico del basso, su cui si staglia poi la chitarra solista con toni d’allarme come se stesse partendo una ribellione dei garzoni dei distributori di benzina armati di sirene della polizia staccate alle volanti; i 7After hanno un bel dire che loro considerano questo pezzo solo un indulgente omaggio ai vecchi Black Rain; in realtà questo è un pezzo che fa formicolare la spina dorsale e ti spedisce dritto in strada a manifestare contro gli oscuramenti dell’anima brandendo grosse torce con un filtro giallo e viola! I cambi di ritmo e lo spessore gorgogliante di asfalto bollente certo non possono ingentilire lo spirito delle nuove generazioni, ma le tengono pronte alla rivolta in caso di istituzione di una tassa sui jeans. A metà brano, l’esortazione si stoppa, ed il basso in un’enclave spettrale brontola tecnicismi sudati, poi la chitarra trova delle sonorità distorte ma con le giuste curvature, e non è che una pausa per una ricarica al bancomat dei fumogeni, prima della ripresa arrembante, chiusa da clangori anarchici. Come un inno alla vita, una canzone gioviale, viene invece presentata dal leader “Negativo”, una composizione che, come la precedente, prende le mosse dal basso di Lorenzo Carbone, che è anche la voce del gruppo; Cristiano Bennati inizia ad elettrizzare lo scenario con la chitarra ritmica corroborato dalla batteria fremente di Luca Bastianelli, simile per grado di attivazione ad un gatto furastico, e poi la voce del nuovo acquisto Romina Cicoli, “in missione” da Dicembre, delinea un orizzonte evocativo, fermo restando che è poi la vocalità sel-vaggia di Carbone a riprendersi lo scenario con dei borbottii indistinti in cui si capta però la parola “…nega-tivooo…” Il personaggio che dice di essere negativo infatti, nonostante la voce femminile co-starring non riesce a tener viva la fiammella della new wave, per cui tutto l’impasto, in genere più che altro alternative, garage, in questo caso quasi affonda nel punk gothic più abbrustolito e rusticano, come un malloppo di pes-simismo che rotola su e giù lungo la trachea, che infatti Carbone, con quel cognome, gratta fino al paros-sismo. Ma va bene, eh?
Finalmente un po’ di Cultura! I Paradisi Artificiali ci riportano ovviamente alla omonima opera in cui Baudelaire scriveva, dopo un’iniziale elogio delle droghe, che: “Orrenda è la sorte dell’uomo la cui immaginazione, paralizzata, non sia più in grado di funzionare senza il soccorso dell’hashish o dell’oppio”; aggiungeremo però che bella strana è la sorte del freak le cui budella ingarbugliate dalle politiche governative, non possano più distendersi senza l’uso dell’immaginazione, diventata isterica anche senza uso dell’oppio. Si può condividere? Eviterei di chiederlo ad Angelino Alfano, che, neanche tanto tempo fa, per ottenere positivi effetti sociali non ricorreva al vino, come raccomandava il grande poeta francese, ma alla sua autorità di Ministro della Giustizia. Non dubitiamo certo che i componenti de I Paradisi Artificiali non dispongano di saggezza sufficiente a tenersi lontani da quelle droghe che, come notava ancora Baudelaire, fiaccano “la volontà, l’organo più prezioso per un artista”, ma siamo certi che con la loro musica sappiano favorire come l’hashish l’insorgere di quelle sinestesie (sensazioni combinate derivate da stimolazioni dei diversi sensi) che entravano, come segrete “corrispondenze” nella poesia dell’autore indimenticabile dei decadenti “Fiori del Male”. La loro “Ogni maledetta domenica” è, nel solco della loro produzione garage punk rifinita e sorve-gliata, sia pur nel voluto grezzume, una vivace rappresentazione ironica, condotta con la propulsione d’un avvio puramente ritmico, col tom tom ed il basso che molleggia le sue smanie, di chi ascolta consigli su come andare lontano con la prudenza ma ben presto sbrocca e lascia partire un vaffa che è lo sbocco di strofe cantilenate in cui ogni ribelle giovane o giovanilista si riconosce nella propria insofferenza verso i dettami ipocriti di chi crede nel conformismo e poi sbaglia anche lui, o lei, lo stesso. La chitarra col suo riff rifà il verso alla voce che “non voglio più ascoltare”, ma poi arrota le sezioni, parte in assoli animati da spirito critico cazzuto e perciò liberatori, poi si defila nella penultima parte, con la voce che sussurra le sue considerazioni, infine riparte all’unisono col resto della troupe nel finale velocizzato. “Inseguendo Marta” è un pezzo più atmosferico, con due effetti di chitarra carezzevoli nella loro tensione sotterranea, che preparano l’apertura ruvida col ritornello. Ma la struttura si replica sotto un cielo grigio caldo, come prima di certi temporali ultimativi, che soffocano tramonti malati, e d’altra parte inseguendo Marta si perdono altre cose, compresa la stessa “speranza di trovare un po’ di felicità”, inutile stupirsi, conviene pensare un po’ più a se stessi perché tanto Marta sembra inafferrabile e forse se ne frega, mirando solo a farci perdere tempo col suo egoismo. La composizione è perfettamente congegnata ed unisce l’amarezza degli inseguimenti-litania con il sapore di vita còlto nello sdoganamento di una verità positiva da una giornata dal cielo grigio slavato come l’ambra in una pozzanghera. “La strategia della lumaca” vede un basso che impone alla sua andatura molle una sorta di effetto eco, poi la voce espone le insolite sensazioni di chi invidia altri per la capacità di sognare malgrado indietro si vedano solo ombre, c’è il rischio di farsi rapire, ma non riesce a fuggire, si sen-te frenato, paralizzato, condannato. Questo viene confessato nei momenti terrei della struttura, che si alter-nano a quelli in cui il mondo intorno si muove ad onde possenti con un chitarrismo sodo e incombente, mi-nacciando l’accerchiato, che pensa di soccombere. Al terzo passaggio, il tono si solleva e trova insperate energie, tanto da spiegare che in realtà aspettava solo una parola, di lei, o piuttosto una propria, che sbloc-casse la situazione, che rivelasse che lui è pazzo di lei: “Se aspetti un attimo, proverò a parlarti un po’ di me, vedrai”. Lei non l’aveva capito mai…. Ed ora “Amami, sparami!”, è come un mantra ossessivo, quell’idea di una alternativa assillante che il tipo si portava dietro come la lumaca si porta la sua chiocciola sul groppone, cercava di procrastinare il momento dello scioglimento del dilemma, perché presagiva già che alla fine, con la strategia scivolosa della lumaca, l’oggetto di tante dissimulate attenzioni si schifa infine della bava e quindi la seconda esortazione/previsione è quella giusta: “Sparami!”, anche se più banalmente lei dirà: “Lascia per-dere!” Formula di buona qualità, quella de I Paradisi Artificiali, che non aderisce piattamente al genere, ma sa ricavarsi una pista meno battuta dell’usuale, su cui spingere con la dovuta vigorìa timbrica ma anche seguire gli effluvi di aromi sonori non scontati a cui la loro sinestesìa mira scopertamente.
il7 – Marco Settembre
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