King Crimson_ Lizard
Dopo “In the wake of Poseidon”, visionario seguito di “In the court of the Crimson King”, di cui in buona sostanza replicava la struttura, i King Crimson rimasero un’identità slabbrata ed evanescente, priva di un vero gruppo da portare in una qualche tangibile tournèe.
Infatti la richiesta di disciplina avanzata costantemente da Fripp e mal tollerata soprattutto da Ian McDonald, e le critiche pregiudiziali emerse dalla stampa USA durante il loro faticoso “giro” promozionale degli States, portarono ad una diaspora sconfortante. Ma Fripp, riconosciuta anima del gruppo, dimostrò di avere la malizia e gli attributi per tenere in vita il progetto e assoldando stavolta come session men alcuni tra gli stessi ex membri che avevano disertato, riuscì a produrre il secondo album. E fin qui!.. La situazione sfumata si perpetuò per circa un anno, fino al Febbraio 1971, nonostante i numerosi tentativi di trovare escamotages e facce con cui darsi una forma; pare che furono sperimentate dozzine di cantanti, passando anche per Elton John, schifato, e Bryan Ferry, scartato anche lui. Ma nella cantina di Fulham Palace Road si sono fiondati in cerca di un ingaggio anche fiumane di bassisti e batteristi, pensando che magari per una qualche combinazione astrale qualcosa del loro stile potesse far esclamare a Fripp: “Ecco quel che cercavamo!”. Infine i prescelti furono due conterranei di Fripp, il bassista Gordon Haskell, già cantante in “…Poseidon”, e il batterista (abilissimo) Andy McCul-lough. Anche loro in realtà contribuirono a cesellare la nuova gemma, poi, scaduto il loro tempo, se ne andarono ognuno per la sua strada. È forse per questo che il disco gode di una diseguale considerazione anche tra i fans, alcuni dei quali lo percepiscono come poco assimilabile o troppo lezioso? Non scherziamo, il despota Fripp, malgrado vaghe passate dell’ombra del pentimento, era ben conscio della necessità di dover sostenere la parte dell’inflessibile burrattinaio alchimista: “Credo che i Crimson siano un modo di vivere. Sono qualcosa di assai intenso e suppongo che Gordon (Haskell, ndr) se ne sia reso conto”. L’obiet-tivo era spingere la musica (rock o non rock) verso l’Obiettivo, l’indefinito di profondità supposte inattingibili. Lizard viene pubblicato nel Dicembre 1970 mentre ancora continuano provini e incontri con i più disparati tipi di aspiranti crimsoniani, e ciononostante il disco è spiazzante, rispetto alla coppia di caposaldi che lo precede, proprio perché segnato dallo sforzo di essere un prodotto più ragionato, ultrarifinito, meditato ed elucubrato come forse non capitò più lungo tutta la storia del gruppo inglese. Eppure appare al tempo stesso caratterizzato sempre da quel caos dissipativo caratteristico degli output dei Crimson e sempre, ovviamente, stracarico di spunti, tanto da risultare, al solito, ubriacante nella sua rilettura medievalistico-espressionista delle ansie epocali tra ’60 e ’70. I tre membri rimasti della line up precedente, ovvero Fripp, il mitico paro-liere, ideatore del light show e addetto al mixer live e factotum Sinfield ed il fiatista Mel Collins, con-vocano, oltre ai due componenti della sezione ritmica, di cui già s’è detto, anche degli ospiti prestigiosi, tutti pro-venienti dal jazz più avanzato, come in particolare il formidabile pianista Keith Tippett e due degli elementi che militavano nella sua formazione, il Centipede: il cornettista Mark Charig e il trombonista Nick Evans, più Robin Miller all’oboe, circostanza che lascia già presumere l’inclinazione che dovrà prendere il progetto: un free-jazz di grande potere evocativo. Le atmosfere, infatti, sono come sempre il tratto irrinunciabile del gruppo, e quest’album si presenta come irripetibile per la ricercatezza parossistica, nell’estremismo elaboratissimo degli arrangiamenti, in un clima emotivo agitato, instabile, anche oppressivo, come vedremo nel dettaglio. Fripp si defila sorprendentemente sotto il profilo della presenza negli assoli, e si consacra alla compo-sizione, rimeditando il suo stile, arricchendolo di cromatismi e sviluppando più del solito gli arabeschi della chitarra classica: A quanto ci riferiscono i più esperti di tecnica musicale, qui il genio originario di Wimborne (presso Bournemouth) fa un amplissimo uso di “staccati”, mentre i tempi, al solito sempre imprevedibilmente compositi se non bizzarri, hanno un che di pigrizia che accentua il tono sofisticato del disco: l’indolenza si profila come il mood dominante, tra accordi rarefatti di piano di estrazione classicheggiante e le reminesce-nze languidone di jazz da night club sospeso alla fine del mondo. Mel Collins, poi, fiatista raffinato, esegue delle rifiniture di un perfezionismo sfumato nella leziosità, altro ingrediente tirato al massimo, come anche la sezione ritmica. A chi può non piacere una roba così? A chi preferisce l’irruenza della contestazione cieca all’accademismo ispirato, sebbene si possa rilevare che c’è della malizia da un verso e del masochismo dall’altro nel voler portare un simile livello virtuosistico anche un po’ nevroticamente cialtrone all’interno del contesto rock. Ma al diavolo, non è stato vero, forse che al concerto in Hyde Park del 5 Luglio 1969 i Rolling Stones, prima attrazione della giornata e impegnati nel compianto del loro compagno annegato in piscina (…) Brian Jones, con tanto di farfalle bianche lanciate in volo, furono quasi oscurati da quella band, i King Crimson, appunto, dai ritmi marziali tra il futuribile e l’oscuro, che “aprendo” per le celebrate superstar blues-rockettare, strabiliò la vasta audience di quel pomeriggio epocale? D’altronde è noto che la tecnica chitar-ristica di Fripp, soprattutto con la chitarra elettrica, non è blues-based, come nel caso di altri celebri solisti inglesi (come Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page), bensì si fonda su un personalissimo assemblaggio di classicismi e suggestioni jazzistiche (che si riscontrano, più che nel fraseggio, nelle scelte melodico-armoni-che). L’onirismo magniloquente ma sfarinato in innumerevoli immagini verbali di stampo felliniano, diremmo in Italia, ma trasposte su di un piano epico-favolistico è garantito dai testi di Sinfield tanto preziosi quanto l’impianto incline al contrappunto e al rigore babelico, in un contesto mostruosamente vicino a “quel grande circo che è la vita” e dove gli strumenti si passano le melodie con espressioni idealmente beffarde e neo-ba-rocche, ma ancor più animate da un lirismo eccentrico. Lizard insomma ha una sua personalità e solo l’orecchio superiore di Fripp stesso e di chi vi è stato in contatto può dubitare della coesione e dell’unità del disco, o meglio parlare di una relativa discontinuità qualitativa (sia pure ad un livello sempre mediamente al-to), dato che nell’insieme, e considerando i numerosi momenti memorabili, si può ben dire che questo lavoro sfugga orgogliosamente all’etichetta di disco incompleto che qualche perenne scontento intende affibbiargli e anzi rivendichi il peso di tappa necessaria nel continuo processo di ridefinizione delle formule che il gruppo stava percorrendo.
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