Il Teatro degli Orrori_ Il Mondo Nuovo
Ogni volta è come andare dal dentista. Lo diceva anche Artaud. Lo stato d’animo è lo stesso, pensi di non morire per quello che sentirai, ma sai che non ne uscirai integro. Ora che il sarcasmo è diminuito è lo stesso. Ho sentito, letto e parlato con persone gettate nella crisi più totale da Il Mondo Nuovo.
Persone che dopo settimane lo ascoltano e lo riascoltano ancora cercando di capire se gli piace o no. Non è un disco facile: questa è la scusa che adduce chi lo sente troppo melodico per essere uscito dal Teatro degli Orrori. La realtà è fin troppo semplice, si tratta di un concept che traduce in musica visioni palpabili per cui non bastava solo parlare/cantare/recitare mettendo sotto una base distorta. Che lo vogliate o no si tratta di coerenza, non tra un lavoro e l’altro, ma tra musica e testo. Cambia di registro, non di potenza, cambiano i concetti che diventano più globali. Razionali.
Il Mondo Nuovo è un’esplosione di storie, di cose da raccontare bene, per farsi capire e non per alludere a qualcosa. Superficiale? No, semplice. Le parole scorrono come fiumi, un lavoro epurato da cui escono 16 tracce sufficienti a lasciare appena 35 MB di spazio vuoto nel disco. A più voci per rimarcare, in modo più lento per toccare. Ahimè qui c’è poco da pogare o sbattere la testa. La testa bisogna tenerla ferma per farci entrare quel filo rosso di solitudine, rassegnazione, indifferenza, rabbia e pietà che rende inscindibile il destino dell’italiano da quello di qualsivoglia straniero. La speranza che aleggia nei testi è solo una triste illusione: c’è un domani che potrebbe cambiare ma in realtà sarà uguale, c’è l’Africa che comunque e sempre sarà spezzata, c’è che “non è nuovo morire in questa vita, ma vivere non è neppure nuovo”. Tematiche azzeccate in un Italia che rifiuta tutto, tutti, rifiuta sé stessa con assurdi secessionismi, rifiuta i figli e i nonni, i nuovi arrivati e il suo futuro. Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che chi ascolta è fossilizzato sul sound di “Compagna Teresa” ed è da quello che pretende coerenza: è come restare delusi dalla propria ragazza che si fa bionda. La guardi con occhi diversi per un po’, ma alla fine rimane la stessa. E’ tutta questione d’impatto. Insomma la nostra bionda è stata coraggiosa: non è facile esagerare e lavorare su qualcosa contro cui sapeva si sarebbero rivoltati i seguaci integralisti che svezzava a poppate di noise da 4 anni. Stavolta si tratta di musica da pensare, musica da capire, inscindibile da un testo che va metabolizzato e poi digerito. Solo poi si può cominciare ad ascoltare veramente. La prima volta in macchina, ad esempio, non c’avevo capito un tubo.
Quelle che ci sputano addosso Il Teatro degli Orrori sono sonorità che in parte già conosciamo, quelle rassicuranti di “Rivendico”, nonostante dei cori che quando non sono urlati danno proprio fastidio, ne sminuiscono l’efficacia, ma che funzionano meglio in “Io cerco te”. Chitarre amareggiate, tra cui quella di Andrea Appino (Zen Circus), e non fa male certo la breve spruzzata vocale di una inedita Annapaola Martin, fuori dai suoi panni da filmmaker. Dio benedica Favero e il suo basso (rifatto anche utilizzando in modo poco ortodosso un pianoforte), formidabile in “Non vedo l’ora”, tra suoni acidi e ruvidi nei momenti migliori di una sezione ritmica che fa scintille e allestisce un tappeto su cui quelle chitarre stridono e fanno fuori ogni spazio d’aria. Spettacolare il lavoro fatto su “Adrian” che apre con le sonorizzazioni di Mirco Mencacci e che prosegue su linee noir tra i rumori allestiti da Giulio, i graffi di Mirai, i colpi spietati di Valente in uno di quei pezzi in cui quella di Capovilla è l’unica voce possibile, sanguigna, beffarda, che riesce a trovare anche lo spazio per uno sfottò dell’acqua levissima e che rende nella pratica il teatro a cui si riferiva Artaud: quello in cui in gioco c’è spirito, sensi e carne. Rodrigo D’Erasmo mette le sue corde nei pezzi più sommessi, si infila tra quelle elettriche di “Monica”, arricchisce “Cleveland-Baghdad”, lamento che riesce a riprodurre in suoni definiti l’aria del ricordo, del rimpianto, la volontà del suicidio, la consapevolezza di aver fatto una cazzata che si trasforma in un precipizio inferocito tra distorsioni e archi; e, in quell’umile dialogo col proprio riflesso che è “Dimmi Addio”, si impone in un crescendo spietato violini/elettronica.
Con “Skopje” i riflettori cominciano a puntarsi davvero sul mondo nuovo, con qualche momento un po’ imbarazzante (sì, ho un problema sono i coretti!) che vale la pena sorvolare giusto per godersi a pieno certe esplosioni hardcore e quella strana, perversa, bellissima, trasmutazione in Ozzy che sembra avere qua e là Capovilla. Verso il quinto ascolto di ogni brano la sensazione di disorientamento però passa. Passano quelle cose che scricchiolano ed evidenziano il contrasto, passa lo shock dell’elettro-tribale “Stati Uniti D’Africa” che prima ti aveva fatto strabuzzare gli occhi: resta un esotico bafalon che apre e il banjo che si unisce all’elettricità creando uno strano ibrido afro-noise, e quello che prima ti straniva (soprattutto l’entrata in scena di ukulele e Mara Haregu Pagani, come spuntati da un’altra canzone) ora, entrato nell’utopia assurda del testo, ti affascina sadicamente. Anche perché poi torna Capovilla a spazzare via tutto con la sua realtà. Su “Cuore d’Oceano” si potrebbe evitare di sprecare parole, è palese che è l’alieno del disco, il salto è troppo lampante e la sensazione è quella di essere buttato in quel mare di cui tanto urlano nel pezzo. Caparezza in questo disco è come una secchiata di acqua gelida dietro la schiena: appena lo senti ti verrebbe di bestemmiare perché proprio non ci voleva, stavi così bene senza, eppure passato lo shock ti rassegni e ascolti. Il testo graffia, il dubstep degli amici Aucan la rendono di una potenza non indifferente e il TDO è ancora più spinto ad osare. E ti rendi conto che ci sono strane creature ne Il Mondo Nuovo come questa che agra, incattivita da schiaffi ed sintetizzatori fumanti, ha la forza colpire direttamente la pancia, il mare sembra un inferno e alla fine siamo persino contenti della secchiata.
Troppo poco lo spazio per descrivere 16 tratti di vissuto. Si susseguono nomi e storie, come sfogliando un album di fotografie sfocate: “Nicolaj”, “Ion”, “Monica”, “Doris” (omaggio agli Shellac con la chitarra di Egle Sommacal), “Martino” e il suo amaro inno all’Italia. E si arriva a “Pablo”, che tra Céline e passaggi di Stratanowskj racconta dell’irreale generosità dell’essere umano, una delle perle del disco in cui a rotolare morbosamente insieme alla batteria di Frank Valente c’è quella di Fabio Rondanini (Calibro 35) che monopolizzano il pezzo e non ci fanno far caso a qualche ambigua dissonanza voce/musica. Una specie di percorso ipnotico orchestrato da rhodes e sezione ritmica (c’è anche il contrabbasso di Stefano Pilia dei Massimo Volume) che stride con la solennità del cantato e che ci risveglia improvvisamente quando la voce si fa inferocita. E oh, a noi Pierpaolo ci piace incazzato, anche se parla (con) degli angeli.
E chiudere con “Vivere e Morire a Treviso” ha un suo edificante perché. Perché dopo che ti hanno tirato un dente vai via un po’ abbattuto, con un senso di vuoto, vuoi solo tornare a casa e tornare alla tua routine. Anche se triste. Una dolcezza immensa intessuta dalla morbida chitarra di Gionata Mirai e dagli effetti sopraffini di Alfonso Santimone che racconta per suoni senza troppe pretese. Un caffè che scende, la sveglia in un sussurro, il sacrificio, il ricordo, la solitudine e l’amore. Altro che fantascienza.
TRACKLIST:
01. Rivendico
02. Io cerco te
03. Non vedo l’ora
04. Skopje
05. Gli Stati Uniti d’Africa
06. Cleveland – Baghdad
07. Martino
08. Cuore d’oceano
09. Ion
10. Monica
11. Pablo
12. Nicolaj
13. Dimmi addio
14. Doris
15. Adrian
16. Vivere e morire a Treviso
Emiliana Pistillo
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