FOTOGRAFIA_ Dalla strada alle pareti
Il momento in cui l’attimo si ferma e diventa fotografia si incrocia con quello che noi amiamo considerare un ricordo. La nostra mente sceglie e seleziona un istante che porta con sé, lo custodisce e lo riporta in vita incorniciandolo o semplicemente riprendendolo da una vecchia scatola, che credevamo di non avere più.
Così i fotografi in concorso nella serata del 17 maggio hanno raccontato i ricordi di una passeggiata, di un viaggio o di un incredibile excursus nella mente.
Irene Carlevale ha intrapreso il percorso più difficile, quello dell’introspezione. Ha viaggiato nella sua mente e ha esternato i sui turbamenti interiori, si è ripresa in video che ha spezzettato, parcellizzato fino a renderli minimali come tanti punti su una linea. I frame sono diventati le fotografie in mostra, maschiate con il ferro dei chiodi in un allestimento che indica la medesima sofferenza dell’autrice nel suo personale calvario: Via Crucis, personale confronto con il significato della Croce.
“Io sento la figura del Cristo, la sento dentro, ma è un Cristo che affronta la morte e il dolore per risorgere.” La Carlevale spiega il simbolismo delle immagini che la ritraggono ripiegata su se stessa, dolorante e inquieta, spiega il valore che dà a un simbolo e la preghiera che rivolge a se stessa per uscire dal dolore, per purificarsi da questo e risorgere come una fenice. Quando si ha una tale capacità introspettiva e la volontà di condividere la propria passio con gli altri, allora si riesce in qualche modo a guardarsi dall’esterno e a guarire quelle ferite che ci si affligge quotidianamente. Così Le lacrime fanno sangue sono vero sangue e vera sofferenza e riescono a diventare un ricordo e non un momento da rivivere continuamente. Sono la tappa di un percorso, la personale Via Crucis della fotografa, che non a caso è anche chiamata Via Dolorosa.
Seneca consigliava al suo giovane amico Lucilio di evitare i viaggi, o quanto meno li indicava come un inutile rifugio da se stessi.
Per Riccardo Ciatti, invece, il viaggio diventa un momento di crescita, di incontro e di sviluppo personale. Un altro modo per crescere, che Ciatti inquadra letteralmente per includervi i suoi ricordi. New York, Berlino e Londra diventano dei momenti pop non necessariamente riconoscibili. I colori forzati che caratterizzano l’immagine, come quelli dei cartelloni pubblicitari che colpiscono l’occhio per lasciarvi la ferita del ricordo.
“Mi affascinano i luoghi più che le persone”, perché per Ciatti i luoghi hanno una propria identità e diventano non la cornice di un racconto, ma il racconto stesso. My Squared Cities sono dei riquadri ridondanti che creano un frastuono nella testa, sono rinchiusi in un formato due per due e legati in gruppi di quattro immagini, per ripetersi quasi in un loop , quasi a creare una “sbornia” dell’immaginario.
Un risultato analogo, ma spiegato in maniera più didascalica è quello di Gianluca Distante. Il fotografo salentino disegna il suo percorso, non vivendolo in modo drammatico come la Carlevale né presentandolo in un rumore acuto come Ciatti, piuttosto ironizza sulla quotidianità di internet, su come ci si faccia intrappolare da questa senza poi trovare il modo per uscirne.
“A volte dopo ore sul web mi ritrovo a chiedermi: ma dove mi trovo?” Questa incapacità di comprensione del presente viene indicata nella figura di una ragazza tramortita dai fili del telefono e da un palo che perde la sua semplicità e diventa un momento di congiunzione tra molti, ecco Le diverse facce di una rete. Una rete che annulla le distanze e che rende incapace di creare una reale vicinanza. In questo senso il percorso personale diventa falsato, come se i passi da fare non fossero mai reali, ma presenti solo nella mente del singolo. Il rapporto qui è costante, pur diventando relativo perché la distanza della rete, che manca di contatto, non può permettere una crescita o una decrescita se non a livello individuale. Distante spiega lievemente, con le immagini, il momento in cui l’individuo si rende conto di essere incastrato e non riesce a svincolarsi per andare avanti e proseguire il proprio cammino.
Ancora più lieve è la giovanissima Maria Elena Santorelli, la sua è una passeggiata fatta di incontri e di facce strane che è piacevole ricordare anche solo per una semplice espressione.
“La gente per strada può raccontare storie proprie anche non parlando.” La Santorelli non ha velleità introspettive, si diverte a giocare con persone che potremmo incontrare facilmente in giro e che ci rimarrebbe in presso se solo avessimo la capacità di stupirci con l’ordinario. Ordinary People è un progetto di facile ricezione, che diverte il pubblico senza farlo rendere conto che gli incontri, che la fotografia ha fissato, sono quelli che sfuggiamo perché ci raccontano anche qualcosa di noi.
Una foto è un appuntamento con la nostra capacità di riflessione, e allora il tratto da compiere è guardare ciò che siamo stati e ciò che abbiamo avuto e perso, compresi noi stessi. La strada che abbiamo percorso può diventare una serie di immagini appese su una parete rossa.
Rossana Calbi
Foto per gentile concessione degli autori
17 maggio, fotografia, Gianluca Distante, Irene Carlevale, Irene Crlevale, Maria Elena Santorelli, martelive 2011, martemagazine, Riccardo Ciatti, Rossana Calbi, sezione fotografia