A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar…
[ILLETTERATA]
Dal ‘700 di Perrault all’800 dei Fratelli Grimm, fino al ‘900 di Calvino, la cultura popolare delle Fiabe è elemento imprescindibile della cultura di un Paese.
Al di là del racconto, della sua struttura, spesso similare di cultura in cultura, quel che appare evidente ad un lettore incallito di racconti definiti (a volta erroneamente) per l’infanzia è che, nonostante le situazioni mirabolanti, un’estensione a volte paradossale della fantasia e la presenza costante di un fundus pedagogico, nelle fiabe i sentimenti, quelli importanti, sono sempre reali, concreti e terribilmente umani ed investono tutti.
Piuttosto che un’invenzione buonista moderna per raccontare il mondo ai bambini o un racconto con la morale per spiegare loro come ci si deve comportare, la favola rappresenta il cuore culturale di un popolo, di una Nazione, di una cultura, risale ad epoche lontanissime (pensiamo alle Favole di Esopo o anche all’Odissea di Omero) ed è un elemento che è comunque presente in ogni tipo di cultura (Le mille e una notte) occidentale e non.
Le favole, le fiabe, i racconti popolari, in ogni loro accezione svolgono una funzione educatrice, sono esistite per secoli grazie al lavoro costante di narrazione orale che ce le ha tramandate con tutta una sorta di arricchimenti e rivisitazioni e arrivano al giorno d’oggi grazie anche al lavoro di recupero svolto nel primo ‘800 proprio dai Fratelli Grimm, che si presero la briga di mettere per iscritto proprio i racconti del popolo tedesco rinunciando ad impreziosirli di orpelli, ma rispettando la struttura originale dei “marchen” (racconti) della tradizione orale.
Nel nostro Bel Paese, medesima sorte, in un periodo decisamente successivo, è toccata alle fiabe della tradizione popolare italiana, grazie all’opera di ingegno e ricostruzione dovuta al grande Italo Calvino. Il lavoro d’indagine, antropologico e sociologico al tempo stesso, con la riscrittura parziale dei testi e la puntuale descrizione del lavoro svolto, fiaba per fiaba, di Calvino al momento non è stato eguagliato da nessuno.
Nelle Fiabe Italiane rivive tutta l’esperienza nazionale, la vita, la storia popolare di ogni regione, gli intrecci culturali e le differenze di visione, i raccordi d’oltre confine con le Fiabe dei fratelli Grimm o di Perrault, e, non ultimo, ci sono nella bibliografia i riferimenti alle altre, parziali, raccolte di fiabe che erano state sino a quel momento pubblicate in Italia.
I due volumi che compongono la raccolta suddividono il fiore del racconto popolare per regioni: il primo volume è dedicato al Settentrione e al Centro Italia, il secondo al Meridione, una sorta di enciclopedia letteraria popolare al cui interno troviamo davvero la vita e in cui la paura, elemento spesso imprescindibile nelle narrazioni favolistiche, a pieno titolo assume il ruolo importante che le è attribuito dalla pedagogia, e cioè quello di contribuire alla crescita ed alla maturazione dell’individuo.
Calvino parlando del suo lavoro ha così scritto:
“Per due anni ho vissuto in mezzo ai boschi e palazzi incantati, col problema di come meglio vedere in viso la bella sconosciuta che si corica ogni notte al fianco del cavaliere, o con l’incertezza se usare il mantello che rende invisibile o la zampina di formica, la penna d’aquila e l’unghia di leone che servono a trasformarsi in animali. E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo: e le vite individuali, sottratte al solito discreto chiaroscuro degli stati d’animo, si vedevano rapite in amori fatati, o sconvolte da misteriose magie, sparizioni istantanee, trasformazioni mostruose, poste di fronte a scelte elementari di giusto o ingiusto, messe alla prova da percorsi irti d’ostacoli, verso felicità prigioniere d’un assedio di draghi; e così nelle vite dei popoli, che ormai parevano fissate in un calco statico e predeterminato, tutto ritornava possibile: abissi irti di serpenti s’aprivano come ruscelli di latte, re stimati giusti si rivelavano crudi persecutori dei propri figli, regni incantati e muti si svegliavano a un tratto con gran brusio e sgranchire di braccia e gambe. Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere.”.
In Calvino sopravvive una dimensione mitico-fiabesca che permette di far intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno. In una sorta di sdoppiamento dei livelli di lettura, da una parte esiste il livello puramente narrativo, semplice e comprensibile da tutti i lettori, dall’altra quello visibile solo dai lettori più smaliziati.
Questa visione si specifica e si riproduce ancora meglio in un’altra opera letteraria successiva all’impegno con le Fiabe Italiane (1956), che è Il castello dei destini incrociati (1973), in cui Calvino esplora un altro versante della cultura popolare, quello della tradizione esoterica della lettura dei tarocchi. Un gruppo di viandanti si incontra in un castello: ognuno avrebbe un’avventura da raccontare, ma non può perché ha perduto la parola. Per comunicare allora i viandanti usano le carte dei tarocchi, ricostruendo grazie ad esse le proprie vicissitudini. Qui Calvino usa il mazzo dei tarocchi come un sistema di segni, ovvero come un vero e proprio linguaggio: ogni figura impressa sulla carta ha un senso polivalente così come lo ha una parola, il cui esatto significato dipende dal contesto in cui viene pronunciata. L’intento di Calvino è proprio di smascherare i meccanismi che stanno alla base di tutte le narrazioni, creando così un romanzo che va oltre se stesso, in quanto riflessione sulla propria natura e configurazione.
Se un classico è un’opera che ha sempre qualcosa da dire e si configura come un elemento letterario in grado di cavalcare tutte le condizioni sociali e storiche, una fiaba rimane, nonostante i tempi e la contemporaneità un elemento di saggezza che difficilmente può scadere nella retorica sterile: “a mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar, venite con me, nel mio mondo fatato per sognar…basta un po’ di fantasia e di bontà”.
I. Calvino, Fiabe Italiane, Mondadori, pag. 1240, € 55
I. Calvino, Il Castello dei Destini Incrociati, Mondadori, pag. 112, € 9
Eva Kent (evakent.74@gmail.com)
Eva Kent, favole, Il Castello dei Destini Incrociati, Italo Calvino, martelive, martemagazine