INTERVISTA- Paolo Fresu: Extralarge 50X50X50
Si rimane colpiti dall’intensità del suono: emozione dirompente che ci conduce in paesaggi interiori senza geografia nè tempo. Ogni volta, con la sua tromba, Paolo Fresu ci narra qualcosa che non è solo frutto di studio e applicazione, ma il manifestarsi della sua Musica dentro…
Rispetto a quando Paolo Fresu era un artista da scoprire il rapporto con il pubblico si è modificato?
Il mio rapporto con il pubblico non è cambiato. Suono sempre quello che mi piace suonare e lo faccio con lo stesso spirito. Certo, oggi so che il pubblico dei miei concerti è sempre più numeroso e che si aspetta tanto, ma la felicità dell’essere sul palco non solo è rimasta intatta, ma è cresciuta negli anni.
50 concerti in 50 giorni, con progetti diversi e mai nello stesso luogo, anzi ambientazioni insolite: un bel modo per festeggiare il tuo 50° compleanno! Cosa ti aspetti da questa avventura? Da quali motivazione è originata?
Mi aspetto tanto. Perché è il regalo per me stesso ed un dono dovuto all’isola che mi ha dato tanto. Le motivazioni sono molteplici. Sarà un viaggio nella Sardegna sconosciuta ed anche un modo per riflettere sulle problematiche ambientali e sulle energie alternative. Insomma, un viaggio di riflessione. Una sorta di curioso vagabondaggio romantico che attraverso la musica, mi e ci, permette di scoprire l’altro.
Essere un valente musicista non implica essere un arista di successo. Qual’è la condizione, il fattore che porta a coincidere i due aspetti?
E’ amare. Non ne ho la minima idea. Parto dall’assunto che si debba fare sempre il massimo per ottenere un risultato. Quando questo arriva ben venga, ma sono certo che se non si dà il massimo il risultato che arriverà non sarà veritiero. E’ ciò che dico sempre ai miei allievi. Date il massimo di voi stessi. Se poi non ce la fate potrete dire di averci provato nel miglior modo. Credo comunque che si debba anche amare molto ciò che si fa e che si debba amare lo stare su un palcoscenico ed il comunicare con il pubblico e con gli altri in genere. La gente lo apprezza e lo comprende.
C’è un valore etico-morale nell’essere musicista, nel caso specifico jazzista, che vorresti trasmettere alla società in genere?
Sì, soprattutto ora. Dare un contributo alla crescita della società con una coscienza civile prima che politica; visto che la parola ‘politica’ si porta appresso, purtroppo, solo significati negativi. Ogni uomo, indipendentemente dal proprio ruolo e dal proprio mestiere, deve farlo. L’artista ha in più la responsabilità di dover metabolizzare il presente.
Negli ultimi anni sono fiorite scuole di Jazz un po’ ovunque. Che ruolo dovrebbero avere nella formazione dei nuovi jazzisti? La maggiore diffusione di scuole, seminari, la possibilità di reperire materiale di ascolto, didattico, ha influenzato l’approccio dai giovani al jazz rispetto, ad esempio, quando ne sei rimasto affascinato tu?
Il livello generale del Jazz in Italia e nel mondo è cresciuto enormemente. Quando ho iniziato io agli inizi degli anni ‘80 era impensabile suonare così bene come i giovani di oggi. Merito delle scuole, di Internet, di ciò che si è sentito prima. Io andai a Siena nel 1980 e ritornai in Sardegna con una pila gigantesca di fotocopie che pesavano un sacco. Non so come abbia fatto a trasportarle in treno e in nave, ma allora non c’era altro modo per conoscere. Oggi il Jazz è entrato anche nei Conservatori di Musica. Allora il mio insegnante mi cacciò dal Conservatorio di Sassari, perché mi sentì suonare il Jazz. Ben venga dunque tutto questo. Mi chiedo solo se, nell’economia del lavoro di oggi, tutti questi ragazzi che usciranno da scuole e Conservatori, diventeranno musicisti o se invece diventeranno a loro volta insegnanti alimentando così una perversa catena…
Nel tuo libro autobiografico Musica dentro, affermi che all’inizio della tua carriera non c’erano molti jazzisti, in particolare trombettisti e questo ti ha facilitato a farti notare. Ora l’offerta dei musicisti è certamente maggiore. Ma di pari passo sono cresciuti anche pubblico e spazi?
Il pubblico è cresciuto molto. Gli spazi sono diminuiti e i soldi pubblici sono sempre meno…
Il Jazz è stato come linguaggio di “contaminazione vicendevole” tra mondi e culture diverse. La Jam Session ne rappresenta l’essenza. Ma oggi è ancora così?
Forse meno di prima. Anzi sicuramente meno di prima, perché prima il Jazz era concentrato nelle grandi città che ospitavano i club dove si riversavano i musicisti. Lo stesso Miles Davis lasciò la sua borghese famiglia dell’Illinois, perché sapeva che solo andando a sedersi davanti a Charlie Parker nel club di New York sarebbe divenuto musicista. Oggi è diverso: è cambiata la geografia di questa musica e si può produrre e sentire Jazz nel posto più sperduto del mondo. Questo comporta forse una dispersione dei contatti ed il musicista è forse un po’ più solo, ma il concetto della jam è sempre presente ed importante…
Maria Luisa Bruschetini
Foto di copertina di Carlo Braschi
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