PITTURA finalissima_ Corpi terminali, umani come particelle
Un concentrato di talenti, compressi in uno spazio ronzante come un alveare: ecco cos’è stata la sala pittura durante la tre giorni di finali MArteLive del decennale, ma era tutto nelle premesse!
Serata del 9: Rocco Cerchiara sembra aver trascinato di peso all’Alpheus pesanti visioni di una (dis-)umanità abbrutita, dotata di protesi cyborg ma soprattutto carica di odio verso se stessa per le sue persistenti imperfezioni. Pittura accanita su corpi autodistruttivi, gestualità strappata, pieghe materiche simili a suture, post-espressionismo da macelleria. Risultato: un incappucciato suicida che si sventra, insoddisfatto della sua condizione di psicopatico sanguinario.
Roman Loerh/Lorenzo Romano, già abilissimo nelle elaborazioni fotografiche, trasporta in pittura i suoi soggetti simbolo di una futura generazione di prototipi esasperati dalle modifiche chirurgiche, che si offrono allo sguardo con rassegnata apatia mostrando la decadenza post-umana delle proprie inedite connessioni organiche, rese esterne. Poggiando su un accurato disegno a matita, anatomicamente “progressista” cioè orientato ad un’evoluzione terminale agghiacciante, ha visualizzato con un’ocra gommoso un post-uomo modificato da una clinica dell’innesto virale, con William Gibson come primario estenuato!
Il senso della presenza tra i finalisti di Nicola Piscopo non dipende certo da un “Peper-One” o Two, emblemi giocoleristici pop, ma è nella sua tecnica raffinata e nella verosimiglianza allucinatoria alla Dalì, che sicuramente gli eviterà il “Fallimento” (un mento fallico) ma che anzi entusiasmerà quei critici che cercano i significati sperando di non trovarli. Piscopo si dichiara convinto che esistono solo significanti governati dal Caso e non significati, motivo per cui non bisogna prendercela con la provvidenza se ci servono una tecnicamente mirabile ”Insalata condita” (mozze), e nè consolarsi tenendosi il buffo “Pesce in mano”, per giunta azzurro come un’alicetta; per questo applaudo nonostante il mio “Tormento” (un mento dotato di corna).
Fabrizio Cicero con uno stile sommesso, poetico, non urlato, affianca di solito al mito nostalgico di volti noti del cinema sparito, come Buster Keaton, peraltro senza volto ma riconoscibile, asteroidi che galleggiano in uno spazio acquerellato con l’acrilico. Epoche svanite e fama che siallontana, ma anche grande eleganza. Questa volta chiama in causa scomparti più dolorosi del-la Memoria: il soggetto è un soldato della seconda guerra mondiale, ed il cratere dell’asteroide in corrispondenza della tempia sinistra si legge anche come il foro di un proiettile, ricordando in questo un ritratto profetico di Apollinaire eseguito da De Chirico.
Mauro Sgarbi mantiene la spinta ecologista cosmica e la critica verso le forme coatte di civilizza-zione terrestri e stavolta, dopo la partenza del Colosseo chiuso dentro una cupola di vetro sulla sommità d’un’astronave, ha dipinto la chiesa di S.Pietro colta in una partenza a razzo, con la sua potentissima scia bianca lasciata dal reattore ed il fumo, che però non nascondono il muro con filo spinato sulla sommità che il Vaticano s’è eretto intorno, in quel futuro, per sottrarsi con la militarizzazione ad un mondo dove secondo alcuni ha esaurito la sua funzione. Meglio quindi salpare verso altri lidi, verso lo Spazio, e sfere supposte più “celesti” della nostra!.. Con immediatezza, senza eccessive leziosità, la facciata di San Pietro è resa con buona ricchezza di dettaglio.
Valerio Zaccagnini sembra avere un approccio grafico tropicale perchè spesso definisce con co-lori primari forme geometriche o figurine stilizzate ricorrenti, con una effervescenza segnica che lo porta ad utilizzare scolature, tessiture, carta argentata e perfino, applicato in collage, un Totò graficizzato col megafono che ancora oggi ripete il suo “Vota Antonio” ad una città incerta tra partitocrazia e bipolarismo, mentre il galletto dagli occhi a palla, da un’altra campitura, sembra rispondergli: “Basta che non mi sfrattate dal pollaio!”.
Antonio Conte con le sue “Facce da Facebook” (“un’arte fatta di gente, per la gente”), ha ormai invaso tutte le piattaforme e contaminando tutte le platee contribuendo a quest’ansia allegrotta di comunicarsi smorfie, atteggiamenti e pose in giro, perchè tanto il serbatoio di vitalità di questa pittura “fresca” è inesauribile. L’artista su carta da pacchi, con semplicità di trattamento e colori primari utilizzati così come escono dal tubetto, raffigura con immediatezza e solarità partenopea l’ego effervescente di “amici” che si rendono raggiungibili e disponibili attaverso il loro esibizioni-smo.
Serata del 10: Diego Miguel Mirabella propone personaggi stilizzati, definiti con segni nervosi su sfondi scuri e terrosi che sembrano trattati ad encausto, mentre in realtà il colore è diffuso con macchie acquerellate, dalle tinte profonde, che si sovrappongono componendo un’atmosfera che sa di fosco limbo di creature dionisiache. Dal vivo ha iniziato un nuovo progetto: mettere a con-fronto sue miniature cinerigne di ritratti con degli originali fotografici freddi in stile foto-tessera. La matrice stilistica è quella dei “nucleari”, una corrente di ascendenza surrealista, ma lui vi ha so-vrapposto le sue figurazioni primitiviste, evoluzione criptica del suo tratto fumettistico.
Davide Ciaffi ha portato all’Alpheus cinque esemplari della sua nuova serie erotico-surreale, elaborazioni aggrovigliate di corpi femminili, preoccupanti considerando gli odierni rapporti tra i sessi, improntati all’isteria passionale e alla sopraffazione sentimentale. Sono composizioni ricche di chiaroscuri, nei corpi totemici pluritettuti, emblemi di contorsionismi nel vuoto di angoli disadorni, ottenuti a carboncino e pastello su carta. Dal vivo si è dedicato, con questa tecnica, a tre grazie con tintarella color latte e capelli neri lunghi, con alcuni arti fusi tra loro in una danza che ricorda la celebre opera di Matisse, sebbene queste si tengano tra loro con una complicità ca-meratesca che tra donne non è poi così scontata in un tale orizzonte, minimale più che ideale.
Maurizio Marchiani, ex graffitista, produce ad acrilico figure beffarde di un fumettismo sregolato pensando ai soggetti ma ben registrato nel tratto, dettagliatissimo, che anti-accademicamente, si avvale di diversi tipi di pennarelli. Il logorio facciale dei due freaks hip-hop che giocano a carte nel buio d’una misera stanza, scola giù dalle rughe sotto forma di trucco da clown. Dal vivo ha dipinto una tipa “tascabile” ma con braccia lunghissime e ripiegate diverse volte (perchè lottano con i confini della tela) che infine reggono un pinocchietto ed una scimmietta seduta in testa. Compo-sizione piacevole e buffonesca, ma la cromia, troppo chiara, mancava un po’ di mordente.
Agnese Skujina, lituana, dalla semifinale ad ora ha diversificato la produzione: ora sta privile-giando i più nordici grigi, sia in un pezzo con un bosco espressionista quasi astratto su cui si sta-gliano “Le maschere di Oleron” (personaggio creato da Stefano Benni), sia in due minute e im-pressioniste vedute di città (una lituana, l’altra italiana, distinguibile solo per due palme piccolis-sime) su cui un cielo grigio è gravido di stelle e promesse, tanto perchè la provincia è quasi uguale ovunque. Occasionalmente l’artista deposita strati più corposi su cui interviene a secco col manico del pennello o lascia affiorare parti dello strato inferiore, per un risultato pittoricamente vario e delicato, come nel quadro con i due individui-burrattini in uno sbuffo di leggera metafisica.
Ana Sebastian Blanco, spagnola, lavora in genere su primi piani stretti di volti simpaticamente alterati da espressioni burlesche. Il 10 s’è dedicata ad un ritratto d’un suo amico attore che a denti stretti e occhi spalancati, simula un’arrabbiatura trasognata: con pennellate ampie come macroscopici sbaffi di colore Ana ha accostato i toni dell’incarnato in maniera spontanea. Passione per la comunicatività del volto e scanzonata ironia, applicata a volti che non pretendono di apparire per forza “carucci”, ma anzi temono di far la faccia di quelli che “ci credono troppo”!
Flavio Romani, oltre ad incidere con ogni mezzo plastico (in senso industriale: malte, stucchi, resine, cementi, reti, ghiaie…) su tele tormentate uscite dal film “Interceptor”, con risultati di indubbio “rilievo” matrerico ma anche come cromia concentrata infallibilmente sul bianco, rosso e nero, ha proposto anche la sua seconda scultura idraulica, su cui fa scrorrere liquidi colorati. Questo esemplare si caratterizza per pannelli di plexiglass che offrono quindi una maggiore trasparenza sui processi di smaltimento di questo groviglio di condotti ed imbuti, rispetto alle dinamiche di certi governi, altrettanto tortuose, ma meno post-dadaiste.
Diego DeCamillis stupisce per le sue cromìe dissonanti, impiegate su astratti dettagli di fortificazioni ignote bagnate dal sangue di ipotetici assedianti schiacciati come mosche, o sbocchi di fogne. Il 10 ha lavorato a due piccole tele acide occupate da un vaso marrone (poggiato su una pavimentazione azzurra) con dentro un guazzabuglio vegetale ambiguo verde e rossastro, orientato verso l’alto, e da una conduttura che svuota liquami, con gli stessi colori, verso il basso. Ma lo schifo potrebbe essere il medesimo, se uno si mette ad indagare. In un altro acrilico fumettistico avant-pop un robottino sale i tornanti di una non-strada vicino alla vetta d’una fortezza a torre con in cima una capanna di tronchi; tutto per dire che ci sono altre dimensioni fantascientifiche senza senso, per un eternauta lobotomizzato, oltre a quella imposta dal ministero della difesa!
Serata dell’11: Carlo Moggia, artista “senior” con una lunga carriera di disegnatore e visualizer pubblicitario alle spalle, è sensazionale nel disporre nel buio d’un vuoto assoluto, ammassi di corpi umani seminudi o vestiti, che si addensano come particelle fisiche (a cui l’artista si ispira) formando grovigli sospesi leggibili come dispersioni astratte dalla colorazione brillante e calibratissima. Eppure Moggia non si avvale di speciali software video come nel cinema, per la generazione casuale di queste “comparse”, ma le dipinge una ad una con estrema precisione di dettaglio e eccezionale velocità e disinvoltura, da fumettista della vecchia guardia (IF, AlterLinus, Heavy Metal edizione USA).
RosaMaria Crupi su un sostrato acquerellato, liquido e sognante interviene sia con un disegno di risonanza inconscia, sia con pennellate più corpose, a tracciare forme difficilmente decifrabili, se non attraverso una psichedelìa olistica profondamente sentita: corpo umano e Natura mostrano la loro segreta simbiosi in un percorso di consapevolezza spirituale. Dietro i simboli archetipici ci siamo noi che li abbiamo creati, in una alternanza infinita da frattale di Mandelbrot, o c’è dell’altro? Una mano-Luna sembra accogliere il pianto latteo d’un Sole-mammella, mentre i rami dell’ albero sono radici protese verso il nutrimento del cielo, e nel cavo del tronco un abbozzo di sesso femminile si fa scrigno della fertilità terrestre.
Stellario DiBlasi opera esclusivamente a carboncino su compensato, ma i volti tesi in espressioni estreme di dolore lanciano urli assordanti, nel loro silenzio formale, e le pieghe ai lati del volto pendono come lunghe scolature che si perdono in pozze di mistero. Il talento per la ritrattistica e la concezione del bianco e nero come congiunzione tra corpo e anima, nucleo del senso della vita, convergono verso visioni oscure, talvolta investigazioni del dolore e dell’incubo, da cui un busto di donna o uno sguardo intenso possono emergere parzialmente come sculture di luce.
Manuela Caruso esegue ritratti, teste che riempiono completamente la tela osservandoci con oc-chi neri dalla fissità ipnotica. L’incarnato ha qualità pari al grado di iconicità, e le poche, secche pennellate bianche e nere che deturpano il volto sono indizi dissonanti di un malessere post-mo-derno, di una parziale destrutturazione vissuta con compostezza elegante ma impassibile dal soggetto, mentre un altro esemplare è privo della bocca, ed indica con muta violenza l’impos-sibilità di manifestare i suoi sentimenti, legati forse alla difficoltà di formarsi un’identità libera dal codice a barre.
Luca Morici, artista anconetano noto per la maestria con la spatola, con il suo magistrale, michelangiolesco S.Sebastiano dalla classica definizione muscolare, ha inteso dimostrare l’11 come sappia dominare anche i pennelli. Morici lavora sulla corporeità sia con scabrose figure plasmate con vigore dalla spatola e tormentate da un dolore che rende ruvida anche la visione, sia dunque con levigate masse neo-classiche, sia con personaggi leggendari del mondo del rock come Hendrix che l’artista appropriatamente ha restituito con pennellate moderniste di un impressionismo free insieme a meditati colpi di spatola sul tipico giubbotto da prussiano, per raccoglere il fermento d’un’epoca e spargerlo come un’aura di magia sul ritratto ad olio, medium peraltro non facile da gestire in poche ore.
Valentina Mordandi, di Milano, non ha potuto presentarsi fisicamente all’Alpheus e si è limitata a spezdire due suoi quadri eseguiti con smalti che conferiscono un profilo decorativistico a ritratti di abitanti dell’Amazzonia o forse di qualche pianeta incontaminato dai terresrtri, sulla scorta del film “Avatar”. L’approccio fortemente naif si ritrova così ad essere in parte funzionale al tema dell’etnia in armonia con le forze primordiali del creato: lo sguardo innocente, i segni tribali dipinti sul volto ad indicare una religiosità respirata coi polmoni verdi d’un cuore animale. La tecnica usata però è forse troppo primitivista, e soprattutto certe zone, come i capelli o parte degli sfondi, perdono qualità estetica.
Il_7 – Marco Settembre
marco Settembre, martelive, martelive 2010, martemagazine, pittura, settembre 2010
RodolfoS
Non o capito tuto mah mi sono entusiasma!!! Bravi