Se non amate il basket guardate The Last Dance
Il documentario è il genere “minore” per antonomasia. Lo sport è il fratello scemo della cultura pop. Per questo molti cinefili, nerd e chi divora una serie dopo l’altra su Netflix, all’inizio avrà forse un po’ snobbato The Last Dance, la serie documentario che racconta l’ultimo anno dei Bulls di Michael Jordan, la squadra di basket più forte, più influente e più vincente della storia dell’NBA.
Doveva essere un prodotto per gli americani e per gli appassionati di pallacanestro, eppure in poco tempo, grazie a un fitto passaparola, la serie ha oltrepassato ogni confine e superato ogni record, diventando la più vista della storia di Netflix, superando persino quell’icona del trash ispanico che è La Casa di Carta. The Last Dance, insomma, è diventato un fenomeno di culto, riuscendo ad unire per la prima volta gli appassionati di sport e quelli di serie tv, grazie a un prodotto narrativamente sublime capace di portare l’epica sportiva su un altro livello.
Tutto nasce nella stagione NBA 1997-98 e dalla decisione di affiancare ai Bulls una troupe cinematografica che seguisse quella che per scelta societaria sarebbe stata “l’ultima danza” di una squadra leggendaria, capace di vincere fino a quel momento cinque titoli in sette anni. Dopo oltre vent’anni, con quella perfetta distanza che permette di vedere le cose al tempo stesso con lucidità e nostalgia, queste immagini vengono rispolverate, assieme ad altre di repertorio e a una serie enorme di interviste con tutti i più importanti protagonisti di quel periodo, MJ in primis. E qui sta la prima finezza: la serie non parla del più forte cestista di sempre “per acclamazione”, ma parla dell’ultima, storica, stagione dei Bulls. Michael Jordan ne è il protagonista assoluto, ovviamente, ma il focus non sta solo su di lui. Una scelta che mette al centro non l’icona ma lo sport, non il mito intoccabile ma l’umanità, concedendo tanto spazio anche ai personaggi secondari: partendo dai campioni come Pippen e Rodman, passando per i gregari come Kerr e Paxton, i rivali e una infinita schiera di personaggi di contorno che regalano uno spaccato complesso, a tratti divertente e a tratti anche profondamente emotivo.
Poi c’è la seconda finezza, ovvero raccontare tutto su due piani temporali: da una parte la stagione ’97-’98 e dall’altra tutta la storia dei Bulls a partire dall’arrivo di Jordan. Ogni puntata racconta un episodio specifico del passato, incrociandolo con una piccola frazione del “presente del racconto”, ovvero l’ultima danza dei Bulls, e con il “presente reale” delle interviste. La scelta all’inizio può sembrare un po’ spiazzante, in quanto sullo schermo si alternano gli stessi personaggi in epoche e situazioni diverse. Chi non è molto avvezzo al linguaggio sportivo in generale e al contesto specifico dell’NBA potrebbe faticare non poco nei primi episodi. Ma è solo il tempo di familiarizzare un po’ con i termini, i personaggi e le situazioni e il meccanismo diventa una vera e propria droga narrativa. Gli autori sono riusciti a spezzare la piattezza inevitabile del raccontare una sola stagione sportiva dall’inizio alla fine. Con i continui richiami al passato, danno la possibilità a tutti, anche ai meno avvezzi all’argomento trattato, di entrare a fondo nella storia, permettendoci di conoscere al meglio i personaggi, i retroscena e le dinamiche interne alla squadra e al campionato. E, al tempo stesso, trattano argomenti sempre nuovi, portandoci per mano in lungo e in largo per oltre un decennio di storia dello sport e mettendo in luce la rilevanza di quella che è stata la dinastia sportiva dei Bulls e la figura di Jordan negli anni ’90.
Una gestione del racconto dinamica e brillante che riesce a intrattenere con lucida ironia, emozionare e commuovere quando serve e, soprattutto, innalzare il tutto a un livello fortemente epico nei momenti cruciali. The Last Dance ci ricorda così quanto lo sport assomigli al Signore degli Anelli o al Marvel Cinematic Universe per la capacità di creare eroi e antagonisti restituendo imprese che meritano di essere celebrate anche al di fuori della nicchia, per quanto gigantesca, degli appassionati. Ed è questo forse l’aspetto che resterà di più: avere trasformato delle figure sportive reali in personaggi culturalmente trasversali. Non stupitevi se d’ora in poi sentirete parlare di Scottie Pippen e Dannis Rodman come si parla di Samwise Gamgee o Jessie Pinkman, se il poster di Michael Jordan sarà attaccato nelle camerette accanto a quelli di Star Wars o di Game of Thrones, o se il ragazzino che l’anno scorso sfoggiava il perfetto cosplay di Harry Potter quest’anno girerà per il Comicon con una canotta rossa numero 23. Non solo icone pop e sportive (Jordan lo era già), ma personaggi della cultura nerd attuale che vede in Netflix la principale azienda promotrice.
Purtroppo, resta un’unica amarezza: The Last Dance non avrà mai un seguito. Nessun sequel, prequel o reboot, nessuna possibilità di aggiungere o sottrarre. Ciò che rimarrà ai posteri sarà una serie ai limiti della perfezione, irripetibile e inimitabile, appunto perché si è alimentata dalla realtà di un’impresa sportiva unica nel suo genere e di una figura come quella di Michael Jordan. Un protagonista complesso e pieno di sfaccettature, dotato non solo di un talento incredibile, ma anche di una grande personalità e di un carattere a volte difficili da gestire ma che sono stati la chiave delle sue vittorie. Insomma un personaggio così iconico che non poteva essere inventato, ma che doveva nascere e basta, seguendo chissà quale congiunzione astrale. Perché il bello della realtà è che non si può scrivere o inventare. La realtà, per fortuna o per disgrazia, semplicemente accade.
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