Essere e non essere, questo è Meta-Teatro!
[TEATRALMENTE]
Dallo zero assoluto del buio di scena emerge un nobiluomo spiritualmente incurvato e immalinconito, che avanza in un salotto cinto di immaginari quanto sdruciti tendaggi intrisi di pensoso romanticume ottocentesco, ripudiato e carico di librerie barocche ricolme di volumi e poltrone stile impero dal velluto consunto e ingiallito, tutto condensato in realtà in un baule pieno di appunti confusi e di tre metronomi, balocchi alla Man Ray custodi rigidi di un tempo ottuso.
Insomma nel cuore della sua dimora tanto ornata quanto decadente, costui accende una candela, tremulo ex voto baluginante nella penombra misteriosa e gravida, dedicato all’anima sbrindellata eppure incontrovertibile nella sua dignità, del compianto bardo teatrale del Novecento italiano, quel Carmelo Bene che riempie il palco con la sua presenza invocata, sconfortata essenza-assenza ammantata dal un profluvio di anacoretiche lamentazioni, autentiche confessioni di orgogliosa inadeguatezza ai contemporanei scenari smunti di senso, professione di eroici e solenni sollevamenti dalle macerie, crassi e inattingibili ripensamenti sulla titanicità dell’attante, quale perenne sopravvissuto al faticoso trascinarsi dell’uomo. I mille fantasmi e i mille feticci di una vita, in quel salotto, ideale replica concettuale e scenica di quello di Huysmans, si agitano nel brontolìio declamante del reading deambulante di Pippo Di Marca, maestro di cerimonie rutilante già nella sua ridondante serie di “Impression d’aFreak”, oltre che protagonista roboante di diverse stagioni della stimolante avanguardia teatrale romana e qui evocatore salmodiante di momenti salienti della vita e dell’ opera dell’ineguagliato Cavaliere delle Lettere e delle Arti (nominato tale dal governo Mitterrand) ma ancor più “poeta dell’impossibile” (acclamato tale dalla Fondazione Schlesinger, istituita da Eugenio Montale), in ultima analisi inafferrabile da qualsivoglia commemorazione che non sia celebrata con toni sentitamente artificiosi ed empaticamente demiurgici.
È questo il caso di Essere e non essere, dal 18 al 30/4/2012 all’Atelier Meta-Teatro in Via Natale del Grande 21 a Roma, messa in scena, non “omaggio” (sicuramente da lui non gradito), delle schegge abbacinanti del mondo-Bene, compresi gli ultimi anni, contrassegnati dal confronto con la malattie e l’isolamento. Pippo Di Marca, co-autore della pièce insieme a Giancarlo Dotto, racconta di aver conosciuto il Maestro nell’anno di grazia 1966, nel camerino del Teatro delle Muse al termine di una burrascosa rappresentazione de “Il rosa e il nero”, durante la quale Visconti, presente tra il pubblico, abbandonò prima della fibne la sala; eppure Bene dimostrò di aver in quell’occasione seraficamente assorbito l’”affronto”, restando calmo, come se nulla fosse successo. Di Marca, allora un neofita, ne conclude, lucidamente, che “Carmelo era un’uomo che s’accendeva e si spegneva, “appariva” e sapeva “scomparire””. In effetti la magmaticità imperiosa di questo mastodonte del teatro italiano, personaggio quanto più “o-sceno” ovvero calato solo in una dimensione teatrale che fosse oltre la convenzionalità delle letture sceniche più codificate, era nota anche per l’irruenza apparentemente iconoclasta di una personalità che lo spingeva a rivisitare anche i testi più intoccabili “massacrandoli” col filtro del suo ingegno. Per non dire della presenza ineludibile, fisica, carnale del suo stesso corpo e della sua emanazione più spazialmente echeggiante, la voce, che debordava ipertroficamente oltre gli steccati bor-ghesi della teatralità classica, ma anche oltre qualsiasi illusoriamente appagante senso di coinvolgimento nel processo storico. Proprio per questo, l’uomo che più di tutti ha incarnato il concetto dell’attore come per-sonificazione assoluta del complesso teatrale, attore-artefice di una scrittura di scena che tratta il testo come “spazzatura” restituendo invece “il significato metafisico del teatro”, come scrisse Klossowski; che ag-gredisce dialetticamente la coscienza, il civile e la cultura perché manifestazione di un apparato di Stato, im-balsamazione indebita di assoluti probabilmente inattingibili; che attacca senza posa il linguaggio stesso, sedimento di detriti della stessa istituzionalità, non per l’urgenza puerile di richiamare l’attenzione o di stu-pire o per essere rivoluzionari pensando di poter cambiare qualcosa, ma per mostrare la necessaria “reat-tività” dinanzi alla “volgarità dell’azione di Stato”; che fa parlare di sé per gli scandali in scena e fuori dalla scena, con l’effetto collaterale, come notò oggettivamente Alberto Arbasino, di spaccare “il pubblico in due, ma con la precisione di quelle reazioni chimiche tipo tornasole capaci di separare con una botta sola le mezze calzette da quelli che cercano di capire”, questo istrione di statura mondiale o giù di lì che seppe cavar fuori la bile dai parvenu della critica e dai gazzettieri i quali pregiudizialmente rispondevano con l’ostra-cismo al di lui rifiuto a riconoscere la funzione di mediazione critica, ebbene egli stesso agiva e recitava secondo questi principi proprio per assicurarsi la possibilità, il diritto, l’impegno drammaturgico del dis-fare, di di-scrivere del porsi come non-attore in un non-luogo, in un articolato e teoricamente sistematico cupio dissolvi che insiste paradossalmente nella sottrazione, nel togliere di scena, nell’“esser detti”, condizione in buona parte sostenuta dalla profonda e dolorosa realtà che “Il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete”, e che la rappresentazione, compresa quella liturgica sacra, tante volte sperimentata dal di dentro dal Bene giovanissimo, è incomprensibilità radicale, “il teatro come incomprensibilità e come incomprensione tra officianti e spettatori”. Viceversa, nella sua forzata e immotivata permanenza in mani-comio, decisa dal padre, non tardò a prendere atto della proficuità iniziatica del linguaggio dei matti, “scom-binato o impeccabile” output di “macchine demolitrici” dell’ordinarietà istituzionale, e quindi influenza ac-cessoria utile ad imbastire invece lucidamente e programmaticamente un disfarsi del teatro che si compie solo se realizza il suo scopo di smarrirsi nell’atto: “Io cerco il vuoto, che è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo”.
Ecco quindi spiegato, per chi avesse poca consuetudine con l’opera di Bene, un titolo che richiama il celebre monologo shakespeariano fornendone piuttosto una rilettura in chiave di compresenza tra due dimensioni che cercano di fagocitarsi vicendevolmente, in uno spettacolo di implosioni a catena che a volte, come ci sentiamo di suggerire, può manifestarsi anche nella vita quando degli eventi contraddicono le premesse e creano sincopi subito inglobate dal non-essere che le riscatta facendole sparire nella confluenza in una logica alternativa, ma tipicamente trova le sue epifanie ideali non solo nel suo teatro, ma in Carmelo Bene stesso come organismo sfuggente, dato che trovava addirittura offensivo (più che fastidioso) questo rivolgersi a lui in modo ontologico. Posto dunque che il “magistero” di Bene è “intrasmis-sibile”, il lavorìo devoto, ruminante, maniacale ed umano di rielaborazione appassionata di Pippo Di Marca e di Giancarlo Dotto, con il secondo noto per essere il più caro amico e sodale di Carmelo lungo tutto l’arco della sua esistenza, nonché autore de “Il principe dell’assenza” e di “Vita di Carmelo Bene”, insieme col Maestro, è una intima eppur solenne testimonianza frontale, partecipe e sofferta, che raccoglie il lascito del Maestro, ovvero l’invito ad una ricerca inesausta, da parte di ciascun artista, del proprio misteriosofico accesso all’energia poetica, e lo protende verso l’umanità accogliente degli spettatori-cultori, una comunità pre-disposta al riconoscimento dell’umanità che è presente nello stesso Bene, e non sopraffatta, come i suoi detrattori pretenderebbero, dal rigore o-sceno della sua alterità, dalla sua a-moralità ad elevato e “disperato” coefficiente di tensione morale. Anche Pippo Di Marca può “vantare” diverse frequentazioni con questo colosso dell’arte drammaturgica, e mostra il proprio “arbitrio” erudito, consapevole, attraversando il fosco ma caldo boudoir allestito sul palco gestendosi con ieratica disinvoltura screziata di sovrana rassegnazione e passando dall’una all’altra delle cornici sospese a mezz’aria con inscritto il testo da declamare con una cadenza vocale caratteristica, trea il sognante e il sublimamente “automatico”, nel dispregio dei propri limiti di concentrazione ed anzi inarcando la voce occasionalmente là dove vibra un accento o scatta una malcelata commozione inghiottita. Sempre sfuggendo equilibristicamente il tono enfatico, Pippo Di Marca in una epica solitudine che porta le radici del “maledettismo” dissimulate dal cazzeggio impenitente tardo-novecentesco, dissoluzione del corpo e della macchina teatrale, pausa anarcoide dall’imperio del testo già di per sé accuratamente (de)costruito, brinda con del vino rosso, svagatamente scacciando ogni sentore di patetica inconsolabile vedovanza, ma inscenando, nell’unico non-luogo possibile, il senso della propria idea-le appartenenza ad un sistema di significanti in cui un urlo lanciato con veemenza si autospaventa, ed Am-leto giunge a rifiutare la sua stessa parte; in questo smarrimento inquieto ma di inaudita densità, Pippo Di Marca con il suo reading-fiume ossequia il dettato teorico del Maestro lì dove egli spiega che la macchina attoriale è ”…lettura intanto, come nella poesia, nella concertistica… (Io) ho bisogno sempre (…) di leggere, di essere detto, non di riferire la cosa… (…) Lo faccio per dimenticare. La lettura come oblio. La lettura pa-radossalmente come non ricordo”. Per altro verso, Di Marca compie un’altra operazione congeniale al gigante salentino quando, nelle pesanti, ponderose e ornate cornici appese al soffitto inserisce dunque i fogli del copione, come degli stralci di testimonianza svuotata del suo oggetto; se si vuole, dei frames non video, ma verbosi, magari estratti descrittivi dalla biografia, piuttosto che dalla cinematografia eretica di Bene, freezed shots letterari, congelamenti post mortem di momenti biografici altrimenti inafferrabili, ed il rapporto tra questi segni e l’insieme dei (pretesi) significati è lo stesso che sussiste tra le tele di Francis Bacon, tanto ammirate dal Maestro, e la sistematizzazione in fondo convenzionalmente narrativa dei cosiddetti film d’azio-ne, in cui egli era solito affermare che “non si muove un bel niente”.
Se volessimo fare i cattolici o gli spiritualisti, ovvero non credere che Bene, dopo essere stato durante la malattia, “mal disposto” perché “indisposto”, prima di diventare (fisicamente) “indisponibile per sempre”, po-tremmo pensare che egli abbia rintracciato invece, dal suo attuale altrove metateatrale, in virtù della sua reattività – come si diceva prima – ovvero della sua “passiva attività”, scacco all’arroganza dell’io e del suo teatrino occidentale, ebbene potremmo pensare che abbia trovato un’estemporanea coda alla sua attività artistica, disponendo inconsapevolmente col suo “non esserci”, o in virtù del suo “de-pensamento”, che due suoi amici e sodali parlino in sua vece, l’uno scrivendo senza apparire, l’altro apparendo in assenza dell’og-getto del suo monologo, realizzando così un perfetto esempio delle possibilità della realizzazione del “Gran-de Teatro”, o, in altri termini, del “teatro senza spettacolo”. Sarà forse che l’energia creativa a cui Bene ci consiglia di tendere indefessamente si presenta spesso come amara ironia di quel destino a cui davvero si vorrebbe dire “Addio, porco!” (1963) o, in altre parole, anch’essa è e non è a seconda delle fasi del rito della creazione in cui pur ammettendo che siamo in grado di conoscere ciò che s’ha da dire, non troviamo alcuna possibilità di poterlo comunicare, e a seconda del conseguente inclinare degli sforzi espressivi verso il tragico o il comico, senza quella pregna contaminazione tra i due che evita il rischio d’impostura.
Al termine del tour de force attoriale, e del rimestare nell’assillo della memoria di chi sapeva dall’inizio di non esserci pienamente, nell’insensatezza ontologica universale, Pippo Di Marca ci lascia con la condanna di Carmelo Bene a restare, che poi vuol dire anche condividere il triste palco del mondo con chi l’ha boicottato nel 1964, per aver messo in scena una “Salomè” con un cast di attori formato prevalentemente da carcerati o ex-galeotti.
“Ecco la vita strafottuta. Misconosciuta. Non è che qualcuno se lo attenda dagli altri. Non sono loro a misco-noscermi, sono io che li destìno alla misconoscenza. Dice João Monteiro nella chiusa de La commedia di Dio: “Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi condanno a rimanere”. Non lo dico, attenzione, come no-stalgia di qualcosa che mi manchi o che mi venga meno da parte loro. Per carità, non aumentiamo l’e-quivoco che io esiga che il mondo si sdebiti con me. In quanto mi misconoscono, si misconoscono”.
(…)
“Ne avranno invano fino al prossimo Cinquemila”.
il7 – Marco Settembre
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