David Vecchiato: “ho deciso di dire che faccio l’artista”
Dal suo mondo buffo che sa diventare inquietante, Diavù, nome d’arte di David Vecchiato, racconta come coordinare tutto quello che fa in un unicum definibile semplicemente arte.
Sei musicista, redattore, insegnante, fumettista, artista visivo, curatore, tra tutte queste cose che fai come ti è venuto in mente di diventare gallerista?
La galleria nasce per colpa di Serena Melandri (l’altra direttrice della galleria MondoPOP, N.d.R.) è tutta colpa sua! L’idea di MondoPOP risale al 2006, noi ci conoscevamo da almeno sette-otto anni, e lei iniziò a farmi notare che tutti gli artisti con cui collaboravo italiani e internazionali impazzivano nel relazionarsi con editori e committenti, e pensò perché non relazionarsi direttamente con il pubblico? Decidemmo assieme di far nascere MondoPOP.
Ma la sfida l’ha lanciata lei notando che gli artisti con cui avevo collaborazioni facevano cose rivolte verso il pubblico piuttosto che al collezionista tipico: il medico, il farmacista, l’avvocato. Poi ci siamo ritrovati ad avere anche questo tipo di collezionisti, ovviamente, anche perché il pubblico in senso più ampio si limita ad acquistare il gadget, il toy, il catalogo. E ora che c’è una crisi evidente, forse anche nemmeno abbastanza evidente, perché secondo me è molto peggio di quello che si dice, il medio borghese che comprava l’oggettistica legata all’arte deve scegliere: o compra una cosa utile o si compra il catalogo d’arte. Quindi adesso ti relazioni di più al collezionista classico.
Qual’è il prototipo del collezionista?
Malgrado io sia dentro MondoPOP, per assurdo l’esperienza di vendita mi è abbastanza lontana. Perché si presenta il difetto dell’artista di non sapersi relazionare con il collezionista, ma non per presunzione, piuttosto perché a volte vedo che i collezionisti sono legati a un puro senso estetico e non gli interessa di sapere nulla dell’artista, altri sono legati solamente alla quotazione, quindi anche se gli dai una caccola su una tela però l’ha fatta l’artista quotato allora va bene, e mi viene voglia di polemizzare.
La cosa che non avresti mai pensato di vendere e invece è stata venduta?
Succede spesso, il mio gusto è lontanissimo dal gusto delle persone che acquistano. Succede anche che io pensi: questa la vorrei comprare io tantissimo, ma è in mostra e sicuramente andrà via subito. Invece, non se la comprano. Io mi chiedo come sia possibile che non si sia comprato una cosa ma allo stesso prezzo ne hanno preso un’altra che a me sembra brutta, ma non esteticamente brutta, io non gli trovo il senso artistico. Spesso le cose che non mi piacciono sono quelle che critico alla stessa maniera in cui critico le mie cose, sono le cose in cui vedo troppo gioco accademico, non vedo nessun concetto dietro, l’idea forte e anche l’impatto estetico non mi rapisce.
Intrecci nella tua produzione la musica e le arti visive, e tu che musica ascolti in genere?
I grandi classici del rock un po’ mi annoiano, mi piace ritrovare le perle, consiglio due artisti favolosi come Jim Sullivan e Sixto Rodriguez, due perle degli anni ’70. Mi piace la musica che nessuno conosce oppure le cose nate strambe. A me piace la musica cantata male storta.
Lo stesso approccio che hai con la produzione artistica, non cerci la perfezione.
Sì, esatto. Non mi interessa l’umano disegnato così com’è, ma una sua deriva.
Nasci prima come musicista o come artista visivo?
Quando ero piccolo disegnavo, non ho mai smesso di disegnare, mentre il primo gruppo penso di averlo avuto a quindici anni con i vicini di casa. Quindi, prima come artista figurativo. Poi bisogna vedere se facevo seriamente da bambino le cose o se è adesso che faccio le cose in maniera ludica come da bambino. Secondo me un po’ tutte e due. Anche perché se non mi diverto, mi stresso. Penso che sia fondamentale perché la vita è pochissima, quindi te la devi un po’ divertire. Gli devi dare un senso e devi star bene.
Però nel pop surrealism non è che ci sia tutto questo divertimento, pensa Mark Ryden, avere un suo quadro nel salotto di casa non è cosa facile, ad esempio.
Ma secondo me lui si diverte da morire. Se tu vedi Ryden dal punto di vista estetico è come avere un fiammingo a casa, ti dà un senso di pienezza. A me per un discorso culturale un lavoro di Ryden diverte, io cerco i simboli alchemici che lui usa, cerco il punto in cui lui si ha giocato nel mettere una certa cosa. Per esempio: perché mette la carne? E chi è la carne?
E secondo te perché mette la carne nei suoi lavori e che vuol dire?
È l’umanità! Nell’intervista che gli ho fatto per la rivista XL (il numero di marzo 2012 di La Repubblica XL, N.d.R.) Ryden spiegava che è molto strano che noi mangiamo della carne e non pensiamo all’animale che stiamo mangiando. Quindi molta gente religiosa mangiando la carne di un animale ringrazia Dio, ma Ryden dice: ringrazia l’animale! E questo ti fa capire che lui si diverte. A me piace questa giustapposizione di elementi in contrapposizione, tu mangi la carne ma non la conosci. Non sai cosa stai mangiando. E mi spiegava che è uno dei motivi per cui dipinge tanta carne, perché è uno degli elementi contraddittori della nostra società. Siamo carnivori e pantagruelici nel mangiare cose che non conosciamo.
Un po’ come non conoscere se stessi, forse, perché anche l’essere umano è fatto di carne.
Sì, ti ignori in quanto animale e ti ignori in quanto simile alla cosa che stai mangiando. È strano, in effetti. Anche se Ryden evita di parlare troppo e dare spiagazione rispetto ai suoi simbolismi, perché ogni volta che tu metti un elemento, lo metti con una logica diversa. Diventa un tuo simbolo a livello di stile, diventa una tua peculiarità però ogni volta gli dai un senso diverso. Io, per esempio, quando faccio un papero una volta vuol dire una cosa e un’altra volta è tutt’altra cosa.
E magari il pubblico lo recepisce in tutt’altro modo e la cosa bella è anche quella non trovi?
Quella è l’arte. Altrimenti non c’è il rapporto emotivo. Io penso che un’opera la completa chi la vede, altrimenti è sempre incompleta. Per esempio, metti un musicista senza pubblico, non ha senso. Stessa cosa per un quadro senza osservatore che sarebbe solo un oggetto che sta lì senza senso.
Quindi tu non hai il concetto dell’artista che si isola per produrre in un eremo?
Quella può essere una scelta, ma è una scelta produttiva.
Spesso gli artisti, quando non si sentono rispettati dal pubblico e dalla critica e non si espongono più a questi. Pensa alla lowbrow art e al pop surrelism, che è il genere di cui si occupa prevalentemente il tuo spazio espositivo, ancora adesso ha dei problemi nell’essere riconosciuto, soprattutto qui in Italia perché negli Stati Uniti è ormai entrato nei musei.
Sì, è vero qui in Italia è cacciato come la peste. Ma anche in America nella selezione dei musei prendono più dalla street art, nel pop surrealism fanno una selezione. Il pop surrealism fondamentalmente è un’etichetta, dentro quell’etichetta puoi metterci quello che senti che ci fa parte. Un’etichetta che prende un sacco di artisti che sono tornati al realismo, sono tornati a una serie di elementi che erano spariti con il concettuale.
Però ritornando al discorso dell’artista che non si sente rispettato. Io ho deciso a un certo punto della mia vita di dire che faccio l’artista. Perché mi sono reso conto che quella modestia era una finta modestia, era una modestia tipica italiana, qui non ci si deve definire artisti. E me ne sono reso conto conoscendo nei primi anni ’90 un sacco di fumettisti che si presentavano dicendo: I’m an artist. Ma non funziona così nelle altre categorie? Non lo decide il pubblico che fai il giardiniere, il giardiniere ha una conoscenza tecnica che gli permette di fare il giardiniere e lui si preoccupa di fare il suo lavoro, lui ha il suo rapporto con le piante e per l’artista è la stessa cosa. Lui fa il suo lavoro, così come lo sente e l’artista è la stessa cosa. L’artista non deve preoccuparsi troppo del pubblico che poi anche al concetto di pubblico bisogna dare la giusta connotazione. Per me il pubblico sono una serie di singoli. Io, per esempio, ho difficoltà a dire la parola fan, si tratta di una persona, di un singolo.
Estimatore ti piace di più?
Estimatore ha in sé il senso critico. È bellissima la parola estimatore perché indica una valutazione. Sì, in fondo mi fa ridere la parola fan. La parola fan mi fa pensare al mancato senso critico. Decisamente meglio estimatore.
Tra le collaborazioni cha hai avuto mi puoi dire quella più difficile?
Con gli artisti ho vari livelli di collaborazione. Penso a Gary Baseman (la cui personale da MondoPOP, BASEMANIA si è conclusa il 14 aprile, N.d.R.) con cui non ho mai disegnato insieme, Gary tende un po’ a proteggere i suoi lavori perché anche se adesso è affermatissimo i suoi lavori sono stati molto denigrati in quanto “pupazzosi” e magari tende a collaborare meno rispetto a Glenn Barr, Joe Ledbetter. Una volta gli ho detto di fare un disegno insieme, lui ha fatto il suo e poi mi ha dato il foglio e mi ha detto: poi tu fai quello che vuoi, quando vuoi. Che è una forma di collaborazione un po’ fredda, io faccio la mai arte, tu fai la tua. Ma in realtà, non si tratta di una collaborazione difficile, si tratta di un modo diverso di lavorare. Se penso realmente a delle collaborazioni difficili penso ai progetti che mi vedono come promotore di mostre e progetti che coinvolgono emergenti, soprattutto emergenti dell’area street.
Insomma quando fai il curatore?
Sì, ma soprattutto di emergenti, perché non crea problemi essere il curatore di Glann Barr o di Baseman o del museo MADRE, avere fatto per due anni l’edizione dell’Urban Super Star al MADRE è stato fantastico se non per quei problemi con quei due o tre emergenti che ci ho voluto mettere per promuoverli. Ma forse perché c’è tanta mitomania. Si cerca di assumere l’atteggiamento del proprio mito che non ha assolutamente quell’atteggiamento. Il problema dell’emergente è che non ha avuto assolutamente modo di confrontarsi con lui tutto qui. Si è fatto un’idea sbagliata. Forse per questo mi fa ridere la parola fan. Io ho sempre rotto i coglioni a tutti. Avevo ventitré anni e andavo sotto casa di Fellini, lo aspettavo solo per parlargli. Andavo da Jacovitti. Andavo da quelli che potevano essere i miei miti. Mi piaceva Nanni Loi. Ho parlato con un sacco di gente meravigliosa.
Ci vuole coraggio, non trovi?
Non credo. Io ho sempre considerato le persone come persone. Il nostro grande privilegio è far parte della specie umana. Ho trovato sempre persone di una tranquillità estrema. Fellini era uno che ti diceva: ma lo sai che non ho mai modo di confrontarmi con i giovani, perché non mi vieni a trovare? Questo è il numero della mia segretaria, perché non mi vieni a trovare sul set? E la stessa cosa Jacovitti che per me è il capo del new pop, lui assieme al Carosello.
Il MADRE ha chiuso a gennaio, tu ci hai collaborato, che ne pensi di questa debacle dell’arte in meridione?
Abbiamo fatto per due anni l’Urban Super Star Show. Che era un’idea che legava lowbrow, urban art, pop surrelism, l’idea era di far vedere i punti di raccordo delle varie espressioni. Cicelyn, il direttore del MADRE, era d’accordo, anche se lui non è facilissimo perché ci si doveva sempre confrontare su cose ridicole tipo: però non diciamo che è arte, perché questa è un po’ una moda.
Una delle ultime mostre che vidi al MADRE era di fotografia, anche questa agli inizi del novecento non era riconosciuta come arte un po’ come la lowbrow…
Esattamente. Però se vogliamo giocare su questi piani e parlare di arte con la A maiuscola, giochiamoci! L’importante è concretizzare e realizzare i progetti.
Ma era nell’aria la chiusura del museo, già quando MondoPOP lo faceva sede dei suoi progetti?
Sì, mi venne detto che nell’aria dove organizzavamo la mostra ci avrebbero fatto un ristorante e io pensai che un ristorante in un museo è una cosa particolare, che devi curare come curi il museo stesso. Il museo MADRE lo visitavi in una mattinata, quindi era necessario far venire la gente appositamente per il ristorante e lo devi saper gestire. L’esperienza Ape Regina era interessante, Cicelyn ha avuto anche grandi idee. Si trattava di serate con i DJ, venivano i giovani e gli regalavi il biglietto per la settimana dopo. E bisogna dire che per queste iniziative gli facevano la guerra, i vicini si lamentavano.
Avevano iniziato a fare anche al MAXXI con la collaborazione di MTV e sono incorsi in problemi analoghi.
Credo che sia il prezzo che si paga nello stare nelle grandi città, pagalo, sennò trasferisciti. Perché le grandi città sono i moti dell’economia.
Ma quali problemi tecnici hai riscontrato nell’organizzazione museale del MADRE?
Faccio un esempio. Un giorno chiesi quanto costavano i cataloghi che loro realizzavano con Electa e mi risposero che il catalogo costava 10.000 euro, e un catalogo con Skira all’epoca costava 5000 euro. Io mi chiedo quanto costi una mostra che ha un catalogo di 10.00 euro? Il motivo di questa scelta era nel fatto che Electa gestiva il bookshop del MADRE. Si chiama mafia questa. Tu devi pagare il doppio una cosa perché quello è l’accordo che hai? Non dovrebbe essere il contrario? Io pago meno perché ho un accordo. Si chiama economia. Una cosa è l’economia che è una cosa sana, una cosa è il business che è una cosa malata. Io penso che il MADRE avesse delle spese inaccettabili. Noi avevamo inviato un progetto che comprendeva tutto. Avevamo inviato questo progetto in base alle foto fatte al MADRE, alle misure degli spazi disponibili, e comprendeva tutto. I loro allestitori dovevano solo prendere i fogli e dire: questo quadro va qua, a quattro centimetri di distanza ci va questo. Però lo studio di architetti che collaborava con il MADRE lo doveva approvare e l’approvazione costava 700 euro. Noi non volevamo pagare questa somma, anche perché anche rispetto allo sponsor ci eravamo mossi da soli, anche perché il MADRE era uno spazio ambito nel sud, adesso c’è il MARCA a Catanzaro, ma all’epoca il MADRE era uno spazio importante, vuoi perché ci collaborava Achille Bonito Oliva, vuoi perché era l’unico spazio che si occupava di arte contemporanea nel meridione.
Eppure a parte le polemiche di Cicelyn sul considerare questa forma d’arte una moda. Che risposta c’era da parte del pubblico napoletano?
Molte persone mi scrivevano perché avevano visto la mostra. Su facebook, su myspace, che all’epoca si usava molto di più, molti erano incuriositi. Questo mi è successo raramente in altre occasioni. Questo interesse si sviluppò soprattutto grazie al canale del Comicon (manifestazione napoletana dedicata al fumetto, quest’anno alla sua XIV edizione, si svolgerà dal 28 aprile al 1 maggio N.d.R.) era quello che aveva fatto il maggior lavoro di promozione assieme ai nostri canali in galleria. Che per fortuna ha un certo riscontro anche a livello internazionale.
Comunque, in Italia chiudono i musei figurarsi le difficoltà che hanno le gallerie private. Come risponde MondoPOP alla crisi?
Io penso che in questo momento bisogna essere molto fluidi e sapersi spostare, bisogna cercare di inventarsi nuove collaborazioni, nuove forme di organizzazione. Non ci si può cristallizzare né adagiarsi sugli allori. Perché toys, gadget vanno a scendere sempre di più nelle vendite, le persone magari dicono: bello il toy di Jeff Soto ma costa 120 euro e io mi devo far la spesa. Lo facciamo tutti questo tipo di ragionamento perché la crisi tocca tutti. Quindi bisogna trovare soluzioni veloci. Le formule sono tra le più diverse. Fare collaborazioni con spazi nuovi e vuoti, ma non ti posso dire tutti i segreti. In realtà, stiamo riflettendo molto con Serena per una risposta che esprima forte vitalità, perché non ti devi abbattere se vedi che il collezionista non risponde. Anzi io penso che MondoPOP sia la mecca del superfluo e so che in generale l’arte di per sé viene considerata così, quella di MondoPOP ancora di più perché più particolare.
E le altri arti? Tu che sei un musicista da sempre come ti relazioni anche a quest’arte e come sta cambiando?
La musica è una necessità e molta gente che lavora con il visivo ha questa necessità espressiva. La parola e il suono. E come bere continuamente alcol e a un certo punto hai bisogno d’acqua, hai la bocca arida. Per me è una necessità di questo tipo. Ma la musica va seguita, e facendo molte cose a volte i perdo e magari vado a registrare in modo discontinuo. Ma quest’anno devo concludere un progetto musicale.
Quando uscirà?
Non lo so.
Il titolo?
Non lo so. È tutto un progetto che sto realizzando da solo in collaborazione con altri musicisti. Anni fa lavoravo ad altri progetti musicali, ad esempio un disco uscito nel 2000 con i Savalas eravamo il tre (David Vecchiato, Federico Simoni, Marco Terracciano, N.d.R) con la Edel, all’epoca, però mi sono accorto che lavorare in collaborazione richiede sempre non una parità di responsabilità ma richiede almeno una parità di impegno. Quindi rischi che dei progetti vanno a morire perché non ci si impegna tutti allo stesso modo e perché nessuno è il leader. Perché siamo democratici, e poi uno si carica delle responsabilità ma non lo dice. A lungo andare non riesci a seguire più un progetto di questo tipo, soprattutto se vuoi fare le mostre con MondoPOP, vuoi fare l’intervista a Mark Ryden, allora adesso sto provando a farlo in un altro modo. Sto seguendo il mio progetto con un’unica persona che in realtà è il produttore artistico che poi è Luca Sapio, che è cantante dei Quintorigo e dei Black Friday, che è fantastico e che ha la mia stessa malattia, concentrazione e affidabilità nel seguire un progetto. Io sto facendo la copertina del suo disco da solista e lui si fida totalmente. E io mi fido ciecamente di lui. Questo dovrebbe essere un rapporto di lavoro tra gente che fa arte, tra gente che fa espressione. Dovresti arrivare a fidarti.
Ma per arrivare a questa sintonia devi conoscere bene la persona con cui collabori?
Probabilmente sì. Ma a volte la puoi trovare anche subito. A volte ci vogliono tante relazioni per trovare la donna giusta, ma alcuni fortunati la trovano subito.
Strano il paragone sentimentale. Ma è possibile trovare subito la persona giusta e magari essere noi incapaci di riconoscerla?
Il paragone ci sta tutto perché anche in questo caso il legame è assolutamente sentimentale. Ma è vero: è possibile trovare subito la persona giusta, dobbiamo stare attenti! Guardare con attenzione come ci comportiamo e questo sia a livello sentimentale che a livello collaborativo. Guardarci con attenzione e saper dire: Mmm… Sto sbagliando! Sai quando riesci a guardarti da fuori è meraviglioso.
Forse schizofrenico?
Schizofrenico, ma meraviglioso, è come un cavallo impazzito e devi saperlo guidare. Ti guardi dal di fuori e dire: ecco qui ho sbagliato, qui l’ho fatta grossa. Qui ho sbagliato io, mentre qui avremmo dovuto fare così…
È difficile riconoscere i propri errori, si mette in mezzo l’orgoglio.
L’orgoglio va tenuto il più possibile a bada. Ci sono tutta una serie di caratteristiche che a volte consideriamo positivamente, ma che invece vanno tenute a bada. Una è l’orgoglio e l’altra è la bellezza estetica. Perché poi se ne diventa schiavi. Sto parlando della bellezza che viene considerata oggettiva, da quella che vedi in TV al disegno che per forza di cose deve essere bello. E confesso che mi rendo conto che sto andando in questa direzione, verso quella che può essere una bellezza oggettiva, perché mi rendo conto che me ne ero tenuto troppo distante perché per tanto tempo; ho cercato di essere espressionista a tutti i costi. E mi sono guardato dall’esterno e mi sono detto che non lo dovevo essere a tutti i costi. Vedo gente che viene da un percorso opposto rispetto al mio che ha sempre cercato e voluto far del bello, e poi fa il marchio, ripete sempre la stessa cosa. Come quando si dice: è bella Belen, allora tutti devono dire che è bella Belen. Poi vai a vedere chi è Belen e pensi: ah, che volgarità! Io vedo un’estrema forma di volgarità in alcune bellezze riconosciute, Belen come alcune bellezze standardizzate che può essere anche un quadro. Però è una mia schizofrenia, come dicevi tu. Ma mi è utile, mi è molto utile questa schizofrenia.
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Rossana Calbi
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