La pelle, l’analisi, la balenottera
[IL_7 SU…]
Davide Di Mieri, in quanto ideatore del Condominio Cantautori, e tra i fondatori dello stesso assieme al pluripremiato Piji Siciliani, sembrerebbe per questo volersi presentare come uno di quegli emergenti prota-gonisti della scena italiana che mirano a ricreare almeno parzialmente le condizioni che negli anni ’70 videro sbocciare i talenti di De Gregori e Venditti.
E invece i tempi sono cambiati, e pur volendo riproporre in un luogo-rifugio, l’Asino che Vola di via Ciamarra 24 a Roma, ogni domenica dalle 19 alle 23, l’atmosfera di condivisione in cui ogni artista interviene sul brano presentato dall’altro aggiungendo il suo personale contri-buto a quella particolare versione, tuttavia ogni artista si inventa o si reinventa come meglio crede, in quest’era in cui non si può sbagliare neanche il disco d’esordio, e allora il Di Mieri dice di nutrire una istintiva diffidenza verso i cantanti e di sentirsi, più che cantautore, soprattutto autore, e di essere un interprete/performer capace soprattutto di “comunicare suggestioni attraverso la modulazione di parole” scelte, masticate e assemblate separatamente o insieme alla musica in una successione di ore notturne e ritagli di tempo che concorrono poi a dar forma a quelle tracce che – magia della musica – porteranno invece tanti a recuperarlo, il loro tempo, a ricomporlo, a riviverlo insieme alle emozioni di “quel particolare momento”. E dunque appli-candosi nel creare undici canzoni che siano altrettante amiche virtuali, Di Mieri ne fa una questione di “Pelle”: un brano aereo, delicatamente frastagliato da un interessante arpeggio pensoso, su cui la voce si lancia in un chiarimento utile prima di tutto per se stessa: “Chiedi alla tua pelle cosa vuole fare, chiedi che non ti puoi sbagliare…” a meno che il pizzicato unito alla riflessione sottovoce non possano essere per-suasive anche per Lei, oltre che per noi ascoltatori. “Sono solo inutili sovrastrutture queste nostre paure, e quanta distanza dentro questa stanza”. Il ritornello lega l’attesa di una discreta svolta alla rarefazione bluette che fronteggia un mare d’inverno sperando di poter acquistare una tinta più decisa e meno freddina: “…il tuo cuore non è ancora ben disposto”. Si attende che arrivi agosto, ma la strada è lunga, e nel frattempo, pensando come con il suo saggio vocalizzo, l’artista in una intervista ammonisce che “bisogna uscire dai rifugi, parlare di meno e fare di più”, a livello politico, e produrre pezzi che tirino fuori anche adrenalina per ballare e sensualità per indurre a fare l’amore, che non guasta mai. E veniamo infatti a “La donna dell’ artista”, in cui la abbozzata ritmica dell’arrangiamento discreto e andante accompagna prima l’esatto contor-no degli interessi di lui – questioni esistenziali, due o tre diritti umani – poi la definizione stimolante della figura sfuggente di Lei a cui il lento scampanìo chitarristico offre un ipnotico contrappunto: “La protagonista, quella che ha qualcosa da difendere, in cui credere… Madre, amante, amica, troia e complice… E mette amore, mette amore…” mentre le tastiere, che simulano archi, stendono un tappeto ideale sotto l’elegante composizione. Abbiamo detto undici brani perché è in preparazione un disco autoprodotto, in cui troveranno posto sia le canzoni chitarra e voce, sia quelle più complesse che per ora Di Mieri ha arrangiato tutto da sé, e questo non fa che accrescere quell’aura di focalizzazione intensa e sempre in qualche modo romantica, di chi può partire indifferentemente da una frase o un frammento di testo per asservirgli dei suoni acconci, oppure da uno spunto musicale di cui le parole dovranno rispettare la metrica, oppure ancora testo e musica possono originarsi da un mood centellinato all’interno dell’animo, come quando sull’accordo di settima au-mentata di “Pelle” si è andato a sovrapporre un colore ed un vento che deve cambiare e a cui bisogna concedere il suo tempo. Con che cuore potremmo noi negare il tempo per la messa a punto del suo progetto ad un artista, ex allievo del CET di Mogol, che, originario del Vallo di Diano, in provincia di Salerno, ha sen-tito l’urgenza umanitaria oltre che espressiva, di collaborare a laboratori di studio della musica a sostegno dei ragazzi desplazados di Bogotà, in Colombia? Fai pure, senza fretta!
The Konspirators, come dice Luca Giurato, noto nemico… giurato del sistema, che li ha incontrati, se non si lasceranno invischiare in compromessi, potranno avere un sicuro successo, perché quando il popolo si sveglierà, preferirà di gran lunga l’abrasività di un “Punkabbestia” breve e secco eseguito al Contestaccio davanti ad un pubblico complice, piuttosto che il teatrino di maschere grottesche dedite ad assistere ai festini pseudo-africani, o a parteciparvi incuranti delle loro panze. Di conseguenza già adesso la vendita dei dischi dovrebbe procedere spedita in certi ambienti in cui gli indignados usano riunirsi in clandestinità per scambiarsi messaggi improntati alla verità e non forgiati con intenti propagandistici. “Parlano, tramano, scel-gono, decidono… dietro le spalle” canta il vocalist in “Dietro le spalle”, appunto, ma in realtà oggi l’arroganza del potere è tale da compiere i suoi misfatti alla luce del giorno, forte della sua impunità, mentre è di pochi il coraggio di contestare a viso aperto e chitarra sguazzante in formicolio funky come i Konspirators, che citano il film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” per ricordarci, con le parole di Enrico Maria Salerno, che la repressione è un capitolo importante dell’attività del Sistema. E la musica non può che essere tesa, contratta, ridotta alle funzioni di mera sopravvivenza ribellistica, batteria e chitarra nevrotizzanti ed antiestetiche, volte ad incentivare le reazioni nervose, a mantenere tutti in uno stato di vigilanza armata di senso critico, anche se ci sono esempi che dimostrano come lo stato adrenalinico possa indurre una con-dizione di benessere in chi ricerca i valori della schiettezza brutale: “Stare bene (yes we can)” è un ribollire frenetico di pensieri positivi, pompati su da una chitarra ritmica che compie un continuo saliscendi tonale, il volto terapeutico del punk come sfogo adolescenziale. “Niente problemi, niente paure, niente sospetti, né congetture!.. Ce la posso fare!”, ma anche l’ombra del dubbio: “Stare bene è importante, rassicurare; stare bene è meglio che niente…” e una qualche armonia chitarristica si insinua nel variegato mantra da epilettico. Questo è quello che più verosimilmente possiamo fare, non la rivolta sociale; potremmo accontentarci di prendere cura di noi stessi, se il governo non ci ammorba. “Maturità” ha un ritmo ed un riff da vecchio blues inquinato dall’attitudine sbomballata del sottoproletariato urbano anni ‘70; l’assolo però ci aiuta ad “affrontare i problemi, tirare somme e conclusioni, imparare dagli errori, superare le divisioni: maturità… maturitàà-ààààà!” e le distorsioni impazzite e incrostate in chiusura fanno crollare il castello di carte così faticosamente costruito con le raccomandazioni di prof e genitori: si vede che non era farina del nostro sacco! “Analisi” si getta all’arrembaggio delle proprie debolezze per poterle sputtanare: “Mi scopro più buono, mi scopro più bello, mi scopro più giusto…: vado in analisiii!”, e anche qui l’assolo storto di chitarra gioca sulla dissipazione delle proprie risorse farmacologiche, e avvitandosi in spire acidognole finisce col consumare, tra le altre pasticche, anche le pillole anticon-cezionali della propria ragazza! “Anarchy in Texas – live” si gioca il proprio carattere trascinante sulla selvaggia euforia di chi prima di suonare si ubriaca, oltre che di birra di infima qualità, anche di fantasie sull’instaurazione di una forma di governo da “casino nel pub” nel cuore degli States repubblicani, là dove i petrolieri più rammolliti si sentono come J.R. del giurassico telefilm “Dallas”, figuriamoci gli altri: kospirano contro Obama! Ma magari sono io ad essere disfattista. Riporta invece alle ancora recenti problematiche di casa nosta quel “Mi dimetto (live)” che brontola inizialmente e mastica amato con i suoi giri di basso, per poi lasciarsi andare al lamento più spontaneo, e non quello suggeritogli dai suoi consiglieri: “Mi dimetto… Non mi diverto più…”; in effetti il bene del Paese è un pensiero residuale, perché non coincide col suo, affermano sempre i disfattisti come i Konspirators, che allargano l’intenzione anche a chi banalmente esce di casa e sfoglia il giornale cercando annunci di lavoto: “Mi dimetto… Non ci sto più!”; le chitarre sgasano polveri sottili in vortici trascinanti, e la semplicità dell’impianto e del suo accattivante riff, pur vivificata dagli assoli conclusivi, afferma la provocatorietà tagliata con l’accetta di questa proposta di “regressive rock” militante, ma anche scazzata, perché anche a noi piace autosmentirci sfac-ciatamente a fronte delle contestazioni: “Mi dimetto, non mi dimetto… Non l’ho mai detto!”.
Megattera è un gruppo che porta il nome di un cetaceo la cui popolazione, a causa della caccia intentatagli dall’industria baleniera, è stata ridotta di circa il 90%, mentre è il diritto di certa gentaglia a godere delle residue meraviglie del pianeta azzurro che dovrebbe essere quasi azzerato, perché non ci sembrano esseri umani, ma neanche bestie, se pensiamo al koala o al colibrì o anche al nostro cane di casa. In opposizione dunque a certi mostri di insensibilità, l’allestimento sonoro dei Megattera, originato da un nucleo di due chi-tarre ed un basso, nella sua fluida viscosità ambient–industrial sembra connotare acusticamente – con im-provvisazioni appoggiate dalla ritmica del quarto elemento, il batterista – l’immaginario deep di una società avanzata a singhiozzo, imbibita di tecnologia ma spesso incapace di assimilarne correttamente il portato proteico, come se fosse una sfida troppo arditamente etica quella di dare corpo a vibrazioni della sostanza del mondo che spesso emergono solo impercettibilmente per la coscienza distratta dei partecipanti ai reality. I due chitarristi dei Megattera invece, impegnati, dapprima parallelamente al progetto, nella scoperta di fo-schi baluginii elettronici industriali, con queste ragguardevoli pinne soniche hanno preso ben presto a son-dare le profondità intorno all’iceberg dell’inespresso e poi le rilanciano all’interno del complesso come se fos-se il canto di una balenottera, dando luogo al corrispettivo psichedelico-underground di quelle evoluzioni acquatiche che i veri cetacei di quresta specie compiono a fini di corteggiamento del partner, o di quelle emissioni foniche che sembrano messaggi olistici prodotti da menti spaziali sottomarine. Che lezione! Non si può dunque parlare di pirotecnìa delle trovate, forse, ma più propriamente di giochi acquatici abissali, lad-dove anche un esloratore degli spazi profondi, sentendosi in fondo un navigatore in un U-boat, trattiene il respiro ascoltando gli echi brulli del Cosmo con le conchiglie spiraliformi della sua strumentazione. “Fine del perdono prt.1” inizia con le registrazioni di voci di due astronauti, forse, poi salgono degli impulsi sonori fiancheggiati da sbuffi boraciferi prodotti sinteticamente con funzioni para-ritmiche, fruscii e un basso sini-stro, con un effetto atmosferico da perdita di vapore nella centralina di comando, in un crescendo andante che si assesta quando una sorta di tastiera calcolatore trova il suo linguaggio spinale, e la sensazione confotevole è che degli scarti del mixer dei Tangerine Dream, dei Kraftwerk e dei Faust siano stati fatti passare in un vecchio carburatore del ’74 e poi aspirati con gli ultrasuoni di un forno alieno! È preoccupante spingersi a considerare poi come dietro “La danza della mente” ci siano in fondo solo due cervelli, i soli responsabili attualmente della dimensione compositiva; le sonorità infatti, malgrado qui lascino trasparire una strumentazione più uman…oide, lasciano sospesi, in un vuoto ipnotico reso modulare da un battito regolare e ovattato, degli accenni larvati di arpeggio, sonde finite nella mucillagine venusiana, deviazioni dal normale decorso clinico, con in sottofondo il macinìo oscuro di qualche turbine alla Lynch, nonché scre-polature, graffi su sacche di gomma che si gonfiano di liquidi virali, mentre una tastiera ampia aggiunge una solennità gregoriana al trip minimalista in cui l’ossessività malinconica cerca di contenersi modulando le proprie sacche di insania. L’effusione sentimentale però d’un tratto si arena, e diventa un rombo costante, con dei gravi accordi di piano a cercare un minimo sommovimento del diagramma intracranico, due binari divergenti, tra i quali la riflessione dolente s’impone, prima del ritorno al raspare sotterraneo in lontanissime cave d’acciaio sepolto. In “Fabbrica della carne” un suono di trascinamento di borchie di spillo concatenate, seriale come in una catena di montaggio delle morbosità bio-metalliche, viene a fungere da sostrato ad una diseguale ritmica di fruscii e sbuffi da robot guasto con le voglie, in realtà il setting pompato di una industria ambigua che cela al suo interno cellette per i test con le mosche che frutta la presenza spugnosa d’una bamboletta, il cui brusìo acuto è l’ultimo stadio della produzione: un feto che è feticcio d’un lamento neonato palpabile. “Cormonauta” immagina forse un cormorano eternauta come epitome ironica di un’avanguardia stellare: bip ritmico scatolare, una voce femminile che si pronuncia sulla insincerità e sulla purezza, doppiata da un’altra, mentre una sequenza crea un’onda su una lontana eco spettrale prima che degli accordi pesanti e gommosi creino il mood per una ritmica drum and bass annacquata ed una divagazione allucinata light: qui una voce sovrincisa respira il suo cantato, ma l’elettronica si innerva ed il pezzo prende una fisionomia da virtual-pop neuro-elettronico concedendosi un afflato liberatorio algido, con frammenti di drumming ed un malato pattern di richiami e risposte tecnotroniche su cui accordi strabici ed una nuova progressione rigida-mente protesica concludono la stimolazione simulata della creatura che sogna “Il sex appeal dell’inor-ganico”. Una diseguale spernacchiatura radioattiva apre “Cubo nero”, un altro assestamento difficoltoso, in cui uno stridio e note di una tastiera giocoleristica triste e robotica cercano un modo saturo per essere com-plementari nel nome di Terry Riley, ma senza farsi spaventare dalle invocazioni dionisiache alla Amon Duul che squagliano le loro strutture tendinee con acidi destinati a schiarire l’ugola della creatura aspirante mono-blocco e “pulirne” il messaggio delirante al fine di rendere comunicabile anche ad eventuali cetacei im-bizzarriti il contenuto visionario dei video di Cristiano Correddu, aka “Koreman Visual”, che sempre corre-dano il live set spiazzante ed evocativo dei Megattera!
il7 – Marco Settembre
Davide Di MIeri, Marco Settembre- Il_7, martelive, martemagazine, Megattera, musica, The Konspirators