King Crimson_ Lizard
TRACKLIST:
Cirkus (including Entry of the Chameleons), il pezzo d’apertura, è introdotto da un leggiadro pianoforte che decritta un’alba segreta, poco prima che la particolare voce di Haskell descriva con toni romanticamente inquieti al limite del macabro, dimensione catapultata sulla scena da un potente riff insistito di mellotron assecondato nel profondo da un basso bulboso. Nel frattempo Fripp si diffonde in un cristallino e precisis-simo arpeggio continuo e fitto che ammalia col suo ramage, in controtempo o in sincopata sovrapposizione con la stralunata parte vocale che racconta, con un affastellamento di note di turbamento, come la Notte, con “la sua cupola a lutto incastonata di diamanti”, seduca in mille modi incoerenti il narratore: “Mi ha gettato su uno scivolo che porta alla pista al suono di una fanfara di megafoni” spingendolo nel mezzo della sfilata, mentre un duttile drumming rende piacevolmente vischioso e inevitabile il tutto.
Sax e mellotron nella sezione centrale, chiamata “sezione Mantovani” da Fripp, regalano una tregua, mentre la fitta complementarità degli strumenti e la compresenza delle suggestioni: il “Morituri te salutant”, “I persua-sori occulti” di Packard e l’immagine di edonismo capriccioso delle rock star, latente in Sinfield, digradano verso un finale, preparato da una nuova pausa lunare, e concretizzato tra accenti gravi, rullare variegato e fiati funambolistici e surreali a sfumare.
Indoor Games, oltre a stimolare l’immaginazione con un testo che allude ad attività bizzarre compiute in raccoglimento alla luce di pulsanti candele entro una volumetria tra il rococò ed il futurista mentre magari fuori infuria il temporale, raccoglie con svagatezza disinvolta espressa dalla compresenza di due fiati, delle spigolature tritate sia dalla voce, sia dalla chitarra forse a tratti su due piste. Nell’inciso l’apertura tastieristica si fa aerea e mistica, con una breve traccia vocale evocativae poi con frammentazioni jazzistiche schizoidi a rimorchio inneggianti ad una fantasmagorica gratuità, come se si trattasse di fornire la soundtrack ad un torneo medievale di soldatini spezzati, vecchi pennelli e membra di manichino in un balletto dadaista in costume settecentesco. A cui concorrono anche i toni da commedia del VCS3, che a volte ha mimato un organetto da Luna Park, altre il salire di giri di una motocicletta, per non dire dei beep vaganti. Per la cronaca: i “fuochi d’artificio al coperto” davvero furono fatti brillare in un appartamento dai King Crimson durante una festa..! “Sabato venite pure con asce a sbalzo, con la brigata di Chelsea/Con fruste e scudisci, va tutto bene per i Giochetti Casalinghi”. Quanto al maniacale scroscio di risa, pare che fosse stato provocato nello scontento cantante Haskell, dall’obbligo di dover pronunciare, in chiusura, l’interiezione “Hey Ho…” (“Ma guarda un po’…”). “Non so come cantarla”. Ottima soluzione.
Happy Family è mixata di seguito al pezzo precedente, e se ne diparte con accordi gravi di chitarra river-berata su cui, inquietante, si stende una discendente fanfara creata ancora con la tastiera monofonica del VCS3, suonata da Fripp con la supervisione di Sinfield al trattamento vocale successivo, a volte necessario, checché ne pensasse Haskell, in un contesto di sperimentazione (Figurarsi che il cantante si sentiva attirato dalla musica nera e da Otis Redding!). Sulla vibratile base di batteria jazz col cantato smorzato cantilenante assurdità poetiche, si susseguono nuovi momenti discendenti oppure incursioni del flauto e affastellamenti in apparenza liberi tra i vari strumentisti. “Ma che bella famigliola, un applauso a mano sola; quattro scomparsi non son più riapparsi. Famigliola dagli applausi fievoli, tutti giocan con le porte girevoli”.
Lady of the dancing water si ricollega all’ampia tradizione di brani di assoluta grazia e delicatezza, com-posti anche per non far impazzire l’uditorio con i contorsionismi dei pezzi più ambiziosi. Il testo, romantico e con numerosi e lirici accenni naturalistici, è agghindato con un vestito sonoro stile ballad stilnovistica su temi di amor perduto e tempi andati. Qui la voce di Haskell ha più agio di stagliarsi, con la strumentazione ridotta, mentre il lavorìo al flauto di Collins si libra nell’aria come il ricordo del volo d’una farfalla in un pigro e perduto pomeriggio estivo latamente proustiano. Qui la sovrabbondante produzione sonora è frenata con sublime sensazione di controllo, che accresce il significato dei versi: “Fra i tuoi capelli i fili d’erba si srdraiano come leoni al sole… Le mie dita vagano carezze sul tuo viso in cerca di saggezza… I ricordi ci spruzzano terra, fiori e sale come un grande fiume. Addio, mia Dama delle acque danzanti”.
Lizard è la suite titletrack che si apre magnificamente con più di un brivido: nella parte prima, Prince Rupert awakes, dopo il baluginante riflesso glaciale della tastiera in avvio, la voce di Haskell, considerata non adat-ta in questo caso, si scopre essere sostituita nientemeno che da Jon Anderson degli Yes, con la sua tonalità altissima, tanto angelicata quanto naturale: Haskell stesso non tentò mai di registrare una sua prova sul bra-no. Lastre raggelanti o scintillii ipnotici si staccano dalle strofe incantate e preziose. Nel secondo ritornello compare, splendidamente inserita, una chitarra mandata al contrario, trucco evidentemente influenzato dalle sperimentazioni beatlesiane, e viene applicato ancora nel corale a base di vocalizzi stranamente acidi, col battimano ritmico. L’apertura del mellotron dispiega un oriizzonte struggente e misterioso, con delle fragilità irrisolte, fine alla solenne interpunzione, da cui diparte Bolero – The Peacock’s Tale, in cui il trombone di Evans sembra celebrare, in una pianura spettrale piena dei tendoni a strisce dell’accampamento, il pavone (umano?) del titolo, destando un effetto espressivo in bilico tra senso di dignità e patetismo in agguato dietro la curva del destino, mentre poi il flauto, impagabile, sottolinea i valori della serenità e dell’equilibrio, tra la popolazione, e, ancora dopo, l’oboe di Miller sembra portare la penombra del dramma incipiente sopra i colori del raccoglimento. L’autunnale mellotron puntella la toccante bellezza del tema principale, ma Evans ricorda che “I passaggi strumentali vennero registrati una sezione alla volta, e dopo ciascuna il risultato veni-va controllato per assicurare che lo stile fosse in sintonia con la sensibilità complessiva del disco”. Una cura maniacale che pare abbia represso la tendenza all’improvvisazione libera dei musicisti, ma effettivamente il risultato lascia più che appagati. Il crescendo diventa un impasto di varia consistenza ma sempre molto espressivo, fino alla brusca interruzione.
Oltre ci aspetta The battle of glass tears, un sensibile passaggio di temperatura emotiva, perché dal calore del pezzo precedente si entra in un clima di inquietudine e paura prodotti da un oboe alto, solitario e teso, che si infiltra tra le parole cantate da Haskell, nella spettrale oscu-rità cangiante, ancora tremula nell’attesa del peggio; in Last skirmish (l’ultima schermaglia) il mellotron ed un basso pesantemente cadenzato producono la sezione oscura, ancora screziata da suoni gentili, ma poi la dissonanza prende il potere, trova una cesura del mellotron, che ancora ribadisce l’imponenza della minac-cia, e poi riparte con, tra l’altro, un piano elettrico tetro, cimbali e rullare di timpani e schegge di note piani-stiche di Tippett che cadono come le lacrime di vetro di uno dei titoli. Ancora un intermezzo “pianissimo”, un altro marchio di fabbrica crimsoniano, e poi la ripresa con gli strumenti che sgomitano simulando lo scom-piglio e la fuga dal campo di battaglia.
In Prince Rupert’s lament basso e batteria preparano sordamente l’infausta, reiterata melodia che offre l’impressione di una esausta processione funebre che avanzi a fatica attraverso ciò che resta dell’armata distrutta. Ora Fripp, rimasto sinora mimetizzato nella folta schiera di mu-sicisti, si riserva un’entrata solistica altamente drammatica, di tragica intensità, una trista enucleazione di do-lore estratto da un fondo lento e marziale, note con effetto eco che si prolungano alla deriva passando da una fonte stereo ad un’altra, liberando un’emozione di profondo chitarrismo avanguardistico.
Big Top è una coda stravagante che si traduce in un abbozzo di melodia ascendente vagamente fatalista, che prende velocità e svanisce nello spazio ricollegandosi al contempo al tema generale circense col suo corollario in dissolvenza di suoni da Luna Park e varianti impazzite dell’oboe. Una conclusione “aperta”, progressiva, forse un enigmatico abbandono della vita come la conosciamo, ma artisticamente superba, per un album in parte controverso, ma ancora una volta autentico crogiuolo di molti tra i diversi lati dell’ispirazione frippiana.
Gordon Haskell e Andy McCulloch, malgrado i tentativi di accomodamento in buona fede di Fripp, non res-sero e se ne andarono, ma quello che dovevano fare l’avevano fatto bene.
il7 – Marco Settembre
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