Quando due rette parallele si scontrano
MILANO- Quando un libro, un film o uno spettacolo teatrale consentono al lettore/spettatore di guardare ad un problema da una diversa angolazione è sempre un bene, in quanto oltre a rappresentare un momento di arricchimento personale, consente di sviluppare una maggiore sensibilità nei confronti delle opinioni altrui: sensibilità sempre più necessaria in una società multietnica e globalizzata come la nostra.
Solo per questo motivo la pièce Il venditore di sigari, andata in scena nella Sala della Cavallerizza del Teatro Litta di Milano, meriterebbe di esser vista. Ma i motivi per assistervi non si limitano di certo a questo. Lo spettacolo, tratto dall’ omonimo libro di Amos Kamil, è infatti una perfetta macchina narrativa, capace di attrarre l’attenzione anche dello spettatore più distratto.
Ambientata a Berlino, nel periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la storia, basata sulla figura del nonno di Kamil, si snoda in un atto unico e vede come protagonisti il venditore di sigari Gruber (Francesco Paolo Cosenza) e il professor universitario ebreo Reiter (Gaetano Callegaro), il quale, come si scoprirà fin da subito, durante il periodo nazista ha perso la cattedra a causa delle persecuzioni antisemite. La scena di apre sull’ennesima visita di Reiter al negozio di tabacchi di Gruber: infatti, da come si intuisce dai dialoghi, quella del professore non è la prima incursione nel regno del venditore di sigari. Ogni giorno, infatti, Reiter si comporta sempre allo stesso modo, sfidando la pazienza di Gruber. E anche stavolta le cose non cambiano: sono le 6.30 e il professore, urlando davanti alla saracinesca abbassata, chiede a Gruber di aprire il negozio come previsto dagli orari affissi all’esterno. Fin dalle prime battute si capisce che le visite di Reiter non sono puramente “commerciali”: il suo atteggiamento è vagamente inquisitorio, tratta Gruber con durezza, lo tormenta con domande sulla sua famiglia, cercando di fargli pesare il suo status di cittadino tedesco. Pian piano diventa chiaro che Reiter vuol tormentarlo per il suo passato da soldato dell’esercito, per le sue mani macchiate di sangue, oltre che per aver rilevato l’attività commerciale di un suo amico ebreo. La realtà però è più complessa di come appare, anzi niente è come sembra: la storia, infatti, prende pieghe inaspettate, rivelando che entrambi i protagonisti sono le facce di una medesima medaglia, quella ebraica ed entrambi non possono vantare titoli di merito visto che per scampare all’Olocausto sono ricorsi a degli espedienti: Reiter scappando negli Stati Uniti con tutta la famiglia, Gruber arruolandosi nell’esercito degli aguzzini del suo popolo. Dopo questo coupe de theatre chi può dire chi sia più degno di criticare l’altro? In fondo, come sosteneva giustamente il regista Jean Renoir, “il tragico nella vita è che ognuno ha le sue ragioni”. Ed ognuno dei due protagonisti cerca di far valere le proprie, anche sullo spinoso tema del dopo-Olocausto: è preferibile trasferirsi tutti (ebrei ortodossi e non) nel neonato stato di Israele, isolandosi così da un mondo che ha saputo solo disprezzarli o è meglio rimanere in Germania, tornando ad integrarsi con i tedeschi, pur nel rispetto delle proprie tradizioni? In proposito sia Reiter che Gruber hanno una precisa idea, ma nessuno ha la forza argomentativa di convincere l’altro, cosa che dimostra quanto sia difficile il nodo da sciogliere e come non sia possibile (per fortuna) un pensiero unico dominante.
Non a caso, la bellezza del testo di Kamil e della trasposizione curata dal giovane regista Alberto Oliva (classe 1984) sta proprio in questo non fornire nessuna risposta assoluta, nella totale assenza di ammiccamenti a favore di un personaggio piuttosto che di un altro, cosa che lascia allo spettatore la libertà di poter riflettere e trarre le proprie conclusioni. A ciò si aggiunge l’indubbio merito di Oliva di aver portato in scena uno spettacolo, che seppur “difficile” per molti aspetti (vedi i frequenti riferimenti all’Olocausto, alla nascita dello stato di Israele oltre alla non notissima tradizione ebraica), riesce a mantenere un ritmo serrato che rende il pubblico in sala insensibile al trascorrere del tempo. L’obiettivo di questa trasposizione lo spiega lo stesso regista in conferenza stampa: ”Ho pensato ad uno spettacolo che, partendo dalla questione ebraica, sapesse trascenderla e arrivare a parlare di tutti, perché tutti prima o poi siamo chiamati a fare i conti con la nostra identità e a scegliere i tempi e i modi della nostra partecipazione sociale, oggi più necessaria che mai”. Ottima anche la prova dei due protagonisti, con un Cosenza che regala al suo personaggio un volto contrito che la dice lunga su quanta sofferenza covi nei meandri del suo animo. L’unico appunto da fare è legato al titolo scelto dall’editore italiano per l’opera di Kamil: di certo quello scelto per la versione inglese ossia The Flame Keeper, che rimanda a chi custodisce e tiene viva la fiamma della tradizione, in questo caso ebraica, è più evocativo e meno “limitante” de Il venditore di sigari, titolo adatto più ad una di quelle fiction italiane dedicate ai mestieri che ad un testo di tale portata.
Christian Auricchio
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