Muro del canto: musica di ieri, oggi
I Muro del Canto sono una band folk –rock che rivisita l’immaginario e la cultura degli abitanti della Capitale grazie a musiche coinvolgenti e alla voce di Daniele Coccia, accompagnato per le parti narrate da Alessandro Pieravanti, che si occupa anche delle percussioni.
Dopo “Luce Mia”, singolo del 2010, e un EP pubblicato nel 2011 dal titolo Il Muro Del Canto, è finalmente in uscita il loro primo disco, L’Ammazzasette, contenente i pezzi già presenti nell’EP accompagnati da un bel po’ di inediti per un totale di quindici tracce di pura romanità. Abbiamo intervistato alla vigilia del lancio del disco Alessandro Pieravanti per conoscerli più da vicino.
Come nascono i Muro Del canto?
Il Muro Del Canto è una band di musica popolare romana e trae ispirazione dalla musica che si faceva a Roma tanti anni fa, la stessa che poi ripresero Gabriella Ferri e molti altri. Noi, però, proponiamo dei testi nuovi e moderni su tematiche attuali con la voce che canta in dialetto romano in un’alternanza di canzoni e brani recitati e raccontati, ma sempre di storie legate alla vita di città e alla vita di strada. Il gruppo nacque un paio di anni fa quando Daniele Coccia, già cantante dei Surgery scrisse una canzone, “Luce Mia”, e la propose a me che sono il percussionista e il narratore della band. Registrammo questo brano prodotto da Altipiani ma ci rendemmo conto che in realtà era una cosa interessante che valeva la pena sviluppare, così iniziammo a mettere su una vera band chiamando tutti quei musicisti della scena romana che avevamo incontrato nei tanti anni in cui suonavamo in giro per locali. In particolare abbiamo chiamato tutte quelle persone che ritenevamo adatte al nostro progetto, come Ludovico Lamarra ed Eric Caldironi, componenti degli En Plein Air, gruppo post-rock, Alessandro Marinelli,un fisarmonicista che viene da un percorso più tradizionale di musica popolare e che ha portato quel suono quasi da balera che nel rock non si sente, e poi Giancarlo Barbati alla chitarra elettrica. Così si è composto un vero e proprio gruppo con un percorso che ci ha portati adesso a registrare un disco, L’Ammazzasette.
E come mai avete scelto proprio questo nome?
Il Muro Del Canto ha un significato più immaginario che letterale perché evoca qualcosa di molto solido, una proposta molto schietta e reale. Immaginiamo il muro di cinta di un’antica città, qualcosa di concreto che viene trasmesso attraverso la musica e il canto. Inoltre noi ci proponiamo sul palco tutti schierati in fila come se fossimo un muro, quindi in realtà il nome si è anche arricchito di significato nel tempo per associarsi con ciò che facciamo e con la musica che componiamo.
E a cosa fa riferimento invece il titolo del disco L’Ammazzasette?
Il titolo viene da uno dei brani che lo compongono ed è stato scelto perché L’Ammazzasette è un po’ un’entità, una favola, un racconto antico che narra la storia di questo personaggio di cui si raccontavano le gesta accrescendole ogni volta, come spesso accade col passaparola. Quindi alla fine questo Ammazzasette era un mito, un personaggio leggendario di cui avere paura anche se in realtà era una persona abbastanza semplice. A noi è molto piaciuto questo aspetto delle storie che cambiano, che si trasformano perchè nei nostri testi cerchiamo in primis di riportare le storie che sentiamo per strada e l’Ammazzasette è proprio l’emblema di qualcosa che viene raccontato tante volte da non sapere più come fosse l’originale, ma non è importante perché spesso quando le storie cambiano prendono un gusto ancora più intrigante e fantastico, un alone quasi mitologico. Abbiamo voluto dare al disco il nome di questa entità misteriosa e rendere lo stesso disco in qualche modo un qualcosa che si sa e non si sa, composto da tante voci e tante storie.
Le vostre canzoni sono tutte cantate in romanesco in un periodo in cui questo dialetto non viene usato con molta frequenza in musica. Come mai questa scelta?
In realtà non è una scelta ma nasce da un percorso di scrittura e di contaminazione in cui Daniele aveva dei testi scritti in romanesco, io avevo dei testi scritti in romanesco e quindi è quello che ci è venuto più spontaneo fare. Unito a tutte le contaminazioni musicali il risultato è stato questo folk – rock molto oscuro in romanesco che a noi sembra una proposta abbastanza nuova ma non l’abbiamo fatto per una questione di appetibilità commerciale. Sicuramente ci fa molto piacere che ai nostri concerti venga tantissima gente e, siccome la vediamo crescere a ogni concerto, pensiamo che poi alla fine quello che ci siamo inventati possa avere una sua fruibilità ma non eravamo partiti da quello, non ci siamo chiesti ”cosa potrà funzionare?”, è tutto venuto in maniera abbastanza spontanea.
Avete già fatto concerti fuori Roma?
Nel centro Italia abbiamo suonato parecchio in questi due anni tra Abruzzo, Umbria, Lazio e l’effetto è sempre stato positivo così come al sud in Basilicata e in Calabria. Ci manca il nord anche se i feedback positivi arrivano così come le richieste dei dischi. Anzi se qui sentire cantare in romano può sembrare una cosa non molto strana magari altrove, in particolare al nord, incuriosisce anche di più, sembra una cosa nuova perchè la musica romana è noi l’abbiamo nel sangue in quanto la sentiamo fin da piccoli ma magari non è così per chi non è cresciuto a Roma… però anche questa è una scommessa: non ci metterei la mano sul fuoco!
C’è differenza nella reazione del pubblico?
Non tanto perché alla fine anche a Roma vive molta gente che viene da altre città, quindi ti ritrovi comunque ad avere un seguito che non è fatto di romani ma di gente che viene da tante parti di Italia. Non noto grande differenza se ti devo dire la verità.
Da cosa dipende a tuo parere il tramonto dell’uso del dialetto romano nella musica contemporanea?
È un processo abbastanza naturale secondo me! Anche nel resto di Italia il dialetto fino a cinquant’anni fa era una cosa abbastanza comune ma poi la situazione è cambiata ma questo non è sbagliato nel senso che la musica in italiano è sacrosanta: ognuno ha il suo modus espressivo e questo è il nostro. Non ne facciamo una questione dicendo che molti dovrebbero ricominciare a cantare in romano e che è una lingua in disuso anche perché in realtà per le strade si sente ancora come tantissimi altri dialetti e ci sono tanti gruppi che riprendono la tradizione come hanno fatto gli Ardecore. Non è una cosa abbandonata, anzi io credo che sia una cosa ancora viva e interessante da esplorare perchè ha ancora molto da raccontare. Le storie che senti nella musica tradizionale romana sono delle storie interessantissime e attuali, molto vere perché sono le storie del popolo. Non sono le canzoni del pop di adesso scritte a tavolino che ti lasciano un po’ perplesso e che ti sembrano tutte uguali.
Tornando al disco, avete anche realizzato un videoclip del brano “La Spina”, già presente nel vostro EP del 2011…
Sì, l’abbiamo realizzato all’interno di un progetto che prevede la realizzazione di 4 – 5 video fino al componimento quasi di un mediometraggio: mettendo tutti i video in fila si scopre una storia che è in divenire all’interno dei video. Il progetto è realizzato dalla Solobuio che è una crew di video maker molto attiva sia nel panorama nazionale che estero. Con loro abbiamo realizzato questo primo video in un’ambientazione molto bella che è quella del Casale della Cervelletta e abbiamo voluto il bianco e nero per un video molto narrativo in cui la band si vede molto poco.
Quindi nel prossimo video continuerà la storia iniziata nel primo video…
Assolutamente! I personaggi che si vedono nel primo video che non si capisce chi sono e cosa fanno trovano vita nei video successivi.
E quali saranno i prossimi brani scelti per i video?
I prossimi sono ancora in definizione ma probabilmente ci sarà”Luce Mia”, che è stato il nostro primo singolo, e “Cristo De Legno” mentre gli altri sono ancora in via di lavorazione anche perché si parla di far uscire un video ogni tre mesi quindi da qui a sei mesi sappiamo cosa accadrà, tra qui a un anno chi lo sa!
Il 14 gennaio presentate il vostro nuovo disco, L’Ammazzasette, all’Init, insieme a diversi ospiti musicali. Ce ne vuoi parlare?
Ci saranno tutti gli ospiti che abbiamo chiamato a partecipare nel nostro disco quindi tutti musicisti vicini a noi che volevamo inserire nel nostro progetto, che poi già di per sé è composto da diverse estrazioni musicali, ma abbiamo voluto amplificare ancora di più questo aspetto chiamando ad esempio al violino Michele Di Maio degli Underdog, un altro violino lo suona Andrea Ruggiero di Operaja Criminale, poi ci sono Les Cardamomò, un trio acustico di organetto, violino e fisarmonica che partecipano ad un brano, Davide Lipari che è un bluesman fantastico e ha prestato la sua chitarra elettrica per un brano e Ivan Radicioni che suona nei Pink Puppets una band molto interessante.
Nel 2011 avete vinto il Premio “Stefano Rosso” per il vostro arrangiamento di “E intanto il sole si nasconde”. Come vi siete trovati a partecipare?
In realtà non conoscevamo bene l’autore ma l’abbiamo approfondito facendo una ricerca in quel periodo così abbiamo trovato questo brano che ci è piaciuto molto e abbiamo partecipato molto volentieri a questo festival. Era in Piazza Santa Maria in Trastevere che per chi è romano e fa musica romana è veramente importante. Alla fine del concorso abbiamo scoperto con molto piacere che abbiamo vinto il premio per il migliore arrangiamento e la cosa carina è che noi avevamo composto questo brano solo per il concorso ma ci è piaciuto talmente tanto che lo teniamo in maniera fissa in scaletta!
Chi sono i vostri punti di riferimento musicali?
In realtà essendo una band di sei elementi dare una risposta univoca sarebbe abbastanza riduttivo perché ognuno ha i propri e non abbiamo degli ascolti di gruppo ma, essendo musicisti di estrazione molto diversa, abbiamo dei gusti veramente differenti e anzi ci troviamo a volte su posizioni diametralmente opposte. I miei punti di riferimento sono sicuramente nella musica italiana d’autore, quella vera da Gabriella Ferri a Piero Ciampi ma anche autori moderni come Benvegnù, gli Ardecore e poi a livello internazionale musicisti come Tom Waits ma anche cose molto divergenti da ciò che suoniamo. Sia io che gli altri siamo degli ascoltatori su larga scala da Johnny Cash a Bob Dylan, ascoltiamo davvero tante cose.
Come dice il vostro comunicato ufficiale, la cultura e la vita di Roma sono presenti in modo forte in tutti i testi delle canzoni ricordando atmosfere simili a quelle dei film di Pasolini.
Noi nel nostro percorso di scrittura ci ispiriamo non solo alla musica ma anche molto al cinema e alla letteratura. Sicuramente per quanto riguarda cinema e letteratura Pasolini è stato sia per me che per Daniele un elemento abbastanza importante, quindi se dovessi dire un film che si adatta bene alla nostra musica potrei dirti “Mamma Roma” oppure”L’Accattone” per quelle atmosfere un po’ strazianti del popolo vessato che trova però degli elementi di rivalsa nei confronti della vita, tutte quelle ambientazioni in bianco e nero sono quelle che vediamo più vicino al nostro mondo musicale.
Secondo te cos’è cambiato e cosa è rimasto uguale a Roma rispetto a quegli anni?
Il mio personalissimo punto di vista è che è rimasto tutto invariato! C’è sempre una tendenza a voler giudicare la propria situazione attuale rispetto a quella di prima mentre secondo me sono solo i tempi che cambiano, la tecnologia che evolve, la vita che cambia, il sistema lavorativo però in realtà le dinamiche tra le persone, i sentimenti e tutto quello che in realtà conta è invariato: è solo il contesto che cambia, non la sostanza. È proprio per questo che la gente quando sente delle storie come quelle narrate nelle canzoni romane di un tempo come le nostre ci si rivede.
In cosa vi vedremo impegnati nei prossimi mesi? Già sapete quale sarà il prossimo singolo?
Adesso c’è tutto il periodo di promozione del disco quindi andremo in giro a suonare e vedremo quello che succederà perché per esperienza personale quando esce un disco non sai mai quello che ti può succedere dopo quindi staremo a vedere come sarà accolto, speriamo bene!
Giuditta Danzi
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