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PITTURA_ Il carboncino, l’indeterminatezza dell’eclisse, le ringhiere

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IMG_3721_1Davide Caffi, non ritenendo giusto che il rapporto tra artista e pubblico sia spersonalizzato, con il pittore che fa pesare la sua assenza da distaccato manipolatore del proscenio e del mercato, da un po’ di tempo si va invece spendendo come performer live, se non altro per cogliere l’opportunità di venire incontro al grosso pubblico “a metà strada” e porgergli con un linguaggio confidenziale qualcuno dei suoi segreti, qualche significato, qualche riflessione.

Ma l’uomo della strada è davvero pronto a credere che alla base del dipinto in cui una donna corpulenta con seni affetti dallo strabismo di venere sembra risucchiata nella luce sia dal basso che dall’alto, ci sia una “grande madre”, attratta “sia verso l’exitus che verso il redditus, secondo la concettualizzazione di Plotino”?? Allo spettatore qualunquista, non partecipe dei miracoli dell’Arte, ma anche a noi, permeati di nausea sartriana, sembra quasi piuttosto che la matrona sia incellofanata in plastica trasparente, pronta per essere portata via, verso l’obitorio dei polletti Vallespluga, alla fine di un thriller grottesco di serie Z, ambientato tutto nel retro di un supermercatino di provincia. Ma per restare ad osservazioni più oggettive e rispettose, dobbiamo soprattutto riferire di come dal vivo l’artista abbia prodotto una nuova versione di questa immagine, in cui i tagli di luce che imprigionano la pingue figura provengono da un paesaggio appena suggerito, con alberi trasformati in dolmen in un tramonto abbozzato e spettrale. La luce, frutto di taglienti cancellazioni del carboncino, imprigiona questa figura, non più chiusa nel buio assoluto come nel dipinto-matrice, ma trasposta in una brughiera metafisica in cui si ritrova, compatta, supina e a gambe larghe, ad essere sia risucchiata che proiettata da qualche folgorante potenza post-moderna. Questa enigmatica scena merita di avere il seguito in una serie, dopo essere entrata nell’orbita di una rappresentazione figurativa un po’ anni ’70 dove il carboncino è usato e sfumato per abbozzare visioni  desolate in cui di solito i corpi nudi sono privati di un volto, per favorire l’immedesimazione nelle anime colpite dall’alienazione.

Anna Santilli, già presente lo scorso anno in concorso con buoni risultati, grazie ai suoi soggetti IMG_3747_1bondage elegantissimi e molto discussi, questa volta è tornata a figurazioni più “leggere”, proponendo una serie di ritratti che portano in sé quasi ontologicamente tutta la qualità filosofico-fotografica degli scatti originali su cui si appoggia, compreso il senso di attimo sottratto al dinamismo vitale dei soggetti bambini, ma poi lo svilup-pano con metodo squisitamente pittorico, con una tecnica, in bianco/nero, che sbozza con una luce e delle ombre astratte le superfici del volto, rendendole diafane e spiegazzate immagini tratte da una immaginaria sequenza di ricordi che rischia di carbonizzarsi per colpa dei fuochi fatui della memoria. La qualità comu-nicativa di questi ritratti è dunque, al contempo, di un pop fotografico nostalgico e di una sorta di astrattismo impressionista che filtra le immagini con l’energia prismatica di un chiaroscuro incessante che spettacolariz-za la caducità.

IMG_3816_1Antonella Ricci ha portato all’Alpheus, ieri 17/5/2011, un trittico astratto in cui il pannello centrale, rosso, è ottenuto con ampie sventagliate di spatola sul colore materico e sabbiato, fino a lasciarlo rappreso in un movimento dinamico che è una ricaduta a cascate nell’assoluto, mentre nei pannelli laterali le curve esprimono un’ancora più densa multicromìa, nel bianco-rosso e blu, elegante e vitale sinfonia a cui fanno da contrappeso classico e statico i panneggi materici di un tessuto tinto con tonalità simili ma più spente. L’artista è molto concentrata sulla tecnica e sui materiali, da lei scelte con estrema cura, conscia che se i grandi maestri del Rinascimento macinavano il lapislazzulo ed altre pietre per ottenere il pigmento, e se ora invece in troppi attingono dal barattolo già pronto, è opportuno trovare una via di mezzo da cui trarre l’alchimia adatta per tracciare “Parabole oniriche” come quelle di cui sopra. L’aspetto gestuale della sua prassi artistica è in diretta connessione col senso spirituale della sua ricerca, che si estrinseca in vortici di colore da srotolare e dissolvere fino a tirar fuori l’anima e scuotere via quei nodi che è sempre meglio sciogliere intorno ai venti-trent’anni che dopo!.. Dopo il liceo artistico, la didattica ed i confronti con i pari all’Accademia (corso triennale), che sta per terminare, l’ha portata ad evolversi tra decorazione e pittura fino al dipinto eseguito dal vivo ieri, in cui la colonna centrale e ascendente del campo di forze cromatiche, era accompagnata da zone segnate da movimenti più contrastati e problematici, non privi della matericità che a tratti contraddistingue le sue composizioni, ma anche se la lavorazione per motivi di tempo non è stata completata, le sue pasta-quarzo ed i suoi bronzi testimoniavano la qualità energetica e positiva del suo astrattismo.

Silvia Pelissero dipinge direttamente col pennello e col colore sulla tela, senza disegno IMG_3664_1preparatorio, soggetti con una fisicità sfuggente eppure percepibile nel movimento convulso e vagabondo della spatola, nei depositi di materia, nelle scolature che definiscono solo l’irrequietezza dei soggetti, innervositi dal loro stesso fragile e insustanziale apparire sul bianco incorporeo della tela, lasdciata volutamente incompiuta, parzialmente indeterminata. Quelle della Pelissero sono immagini che sembrano quasi illustrare, in uno stile memore dei dibattiti estetici anni ’60 e ’70, un’”Eclisse” o un “Deserto rosso” alla Antonioni pur mantenendo un appeal forte e glamour in virtù del rosso e del blu, che danno sostanza timbrica alle apparizioni diafane, sul limite dell’autocancellazione contestataria, come testimoniano gli stessi titoli “The nothing life” e “Memory II”, e nel secondo lo sguardo vitreo e l’avanbraccio alzato in-dicano l’incertezza circa la propria stessa persi-stenza nel bianco della tela dell’oblio e dell’indifferenza, qual-cosa di cui soffrono i divi più dannati o quelli che hanno voluto sentirsi tali fino a slittare fuori dalla realtà vera. La tecnica di Pelissero deriva, sia pur alla lontana, dal dripping di Pollock e dall’espressionismo a-stratto, da cui le deriva la certezza che “il momento d’Arte è sempre nel suo farsi”, ma con la differenza che lei è inevitabilmente attratta dalla figura umana, forma in cui ci agitiamo noi tutti, con cui un artista “parla di noi stessi, del rapporto umano”, dei modi in cui la gente, ed in ultima analisi il pubblico, si riconosce in quello che vede, in quello che sente.

IMG_3802_1Massimiliano Diotallevi, con una certa sicurezza che potrebbe discendere dalla sua capacità d’osservazione sia da una predilezione per i microcosmi, dipinge forme astratte che sembrano emerse attraverso l’in-grandimento di porzioni e dettagli di scenari naturali. In effetti nei due dipinti più piccoli, in cui aveva trovato un suo stile, ha sintetizzato, tra bianco opaco spugnato e screziature bruno scuro, l’aspetto di rocce minerali, il volto della natura che più lo affascina, in cui ravvisa “la totalità della vita primordiale”. In queste forme semplici, nonostante la loro natura inanimata, l’artista coglie il pulsare della vita, un equilibrio totale che potrebbe comprendere perciò, in nuce, anche le “Ninfee”di Monet, che lui potrebbe aver inconsciamente interpretato in una versione afro miniamalista, in cui il residuo colore ocra dello sfondo è idealmente prelevato da ca-panne d’argilla, oppure una porzione sgranata del ramage di un’albero della savana. Dal vivo ha lavorato an-cora col bianco su un fondo ocra e verde, per “tirare fuori” una sorta di scheletrica forma arborea nera dotata di riccioli deco alle estremità e di spessi profili arancio. I colori e le forme si sistemano secondo uno schema defocalizzante pratico e vago insieme, che mostra non le cose ma solo il loro miraggio, anche se a volte dipinto col colore più materico, come l’impasto di un fabbricante di vasellame somalo. Tutto ciò è molto jazz, ed è implicato quindi con la formazione musicale di Diotallevi, impegnato in una parallela attività di sassofonista, ed è forse seguendo un tracciato etno, tipo una scala pentatonica che ha abbandonato la pittura figurativa per consegnarsi a questo astrattismo radicale che potrebbe evolversi verso forme minimali e sincopate di fauvismo contemporaneo.

IMG_3853Habe (Renato Marvasi), giovane e solo apparentemente disimpegnato, ma molto diverso da quei minus Habe-ntes tutti velature e diluente, ha portato al Marte Live due pezzi monocromi nello sfondo, su cui con pochi energici tratti, di pennello usato come un pennarello contundente, ha tracciato con la sua fresca svagatezza le espressioni di due soggetti, uomo e donna, prelevati da qualche Lanciostory finito poi nella cassapanca del nonno; è così che insistevano nell’occhieggiare all’interno della sala pittura lo sguardo sin-teticamente accigliato di un Bogart dozzinale anni ’80 e quello della modella spaventata da qualche maniaco sessuale in agguato dietro la finestra, lasciata aperta apposta sul bagno. Dal vivo l’artista ha tracciato un ovoide rosso-giocattolo, ha occupato un angolo con del blu livello base, e sopra all’ovoide sporcato da un’ ombra “a tirar via” – come si dice con linguaggio tecnico – a conclusione della sua performance volutamente anti-spettacolare che contesta in un colpo solo la storia dell’arte e tutti i suoi de-rivati fumettistici, ha applicato in collage, con un non comune senso della pigrizia concettuale, una figura di statua ritagliata dalla fotocopia ingrandita d’una foto scattata dall’artista stesso nel giardino della reggia di Versailles; la cromia è tesa appunto a magnificare con una pernacchia estetica la grandeur francese, ed esalta al contempo la prassi consolidata dell’artista, aduso, come grafico dello IED, a confezionare al com-puter pulsanti interattivi ma senza metterli on-line, perché a questo deve pensarci il web designer, non il grafico, scazzato in virtù del suo talento. Allo stesso modo, l’intervento ironico e irriverente va considerato come mirato ad ottenere il mal di testa del recensore di turno, non a segnare allegoricamente la differenza che sussiste tra la “Statua nel parco di Versailles” di Giovanni Boldini ed un pezzo di carta che beffardo ri-chiama all’inconsistenza della Gloria, il principio informatore di Luigi XIV, rappresentando un giovane fauno che si accinge a far risuonare due piccoli cimbali, quasi a voler dare la sveglia a quelli che ancora credono che la pittura non sia stata superata dai palmari stile Tron e dalla tinteggiatura delle ringhiere!

il7 – Marco Settembre
Foto di Daniele Romaniello

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17 maggio, Anna Santilli, Antonella Ricci, Davide Caffi, Habe, marco Settembre, Marco Settembre- Il_7, martelive 2011, martemagazine, Massimiliano Diotallevi, pittura, Sezione Pittura, Silvia Pelissero

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