Never let me go, regia di M. Romanek
“Continuo a pensare a un fiume da qualche parte là fuori, con l’acqua che scorre velocissima. E quelle due persone nell’acqua, che cercano di tenersi strette, più che possono, ma alla fine devono desistere. La corrente è troppo forte. Devono mollare, separarsi. È la stessa cosa per noi. È un peccato, Kath, perché ci siamo amati per tutta la vita. Ma alla fine non possiamo rimanere insieme per sempre”.
Ci troviamo in piena campagna Inglese, in un college chiamato Hailsham ed ogni cosa sembrerebbe essere perfetta: l’aria è tranquilla, i ragazzi giocano a baseball e le ragazze si perdono a chiacchierare tra loro sulle prime cotte adolescenziali.
Ogni giorno gli studenti di Hailsham dipingono, seguono lezioni di storia e letteratura, godono di piena salute ed affrontano insieme la propria crescita emotiva.
Certo ci sono misteri inspiegabili, come la paura di oltrepassare i cancelli del college o di quella fantomatica “Madame” che ogni anno seleziona i lavori migliori degli studenti per la sua misteriosa Galleria, ma nulla sembrerebbe sconvolgere la vita della giovane e quieta Kathy (Carey Mulligan).
Amica di Ruth (Keira Knightley) e segretamente innamorata di Tommy (Andrew Garfield), Kathy inizierà a conoscere il suo destino dopo che l’ultima istitutrice giunta ad Hailsham, Miss Lucy (Sally Hawkins), confesserà alla sua classe l’agghiacciante ed unico motivo della loro esistenza.
Diretto dal regista Mark Romanek (conosciuto per la sua pellicola One Hour Photo e per i suoi video musicali, girati con artisti del calibro di Michael Jackson, Madonna e i Coldplay) e adattato sul grande schermo dallo sceneggiatore Alex Garland (28 Days Later, Sunshine), Never let me go è un’opera letteraria uscita nel 2005, scritta dal Nippo-Britannico Kazuo Ishiguro, già famoso per The Remains of the Day (Quel che resta del Giorno), portato sul grande schermo nel lontano ’93 dal regista James Ivory.
Come sempre è normale trovare non poche differenza tra un romanzo e il suo adattamento cinematografico: spesso i personaggi vengono delineati poco, si sceglie una tematica principale rispetto ad un’altra e si finisce con il tralasciare pericolosamente tutte quelle emozioni che solo le pagine di un libro erano riuscite a donare. Ed è questa la sensazione che, purtroppo, tira fuori la pellicola di Romanek, principalmente raccontata attraverso il delicato e doloroso triangolo che si forma tra Kathy, Ruth e Tommy.
Ma la trama non si sofferma solamente attraverso equivoci ed incomprensioni di tre giovani innamorati, bensì affronta una tematica profondamente cupa, di un presente alternativo che potrebbe essere solo una dura premonizione su un possibile futuro: la clonazione.
Proprio questa parola ci riporta alla mente diverse pellicole passate, come Gattaca (regia Andrew Niccol) o il più recente The Island (regia Michael Bay), dove i protagonisti cercavano comunque di cambiare la loro vita preimpostata e comandata dalla società stessa. Una società che arriva ad usare vite create in laboratorio, spogliate letteralmente dalla loro umanità e dai loro diritti, ignorandone perfino la presenza di un’anima.
In Never let me go nessuno combatte o scappa, non ci sono esplosioni spettacolari di elicotteri e nessuno alla fine scavalca il sistema raggiungendo le stelle dell’universo; ciò che resta alla fine è soltanto l’angoscia e la speranza della grazia, la convinzione e l’assoluta rassegnazione di completare prematuramente un ciclo, chiedendosi semplicemente come sarebbe incontrare il proprio “modello”.
E se Romanek non lascia più ampi respiri a queste considerazioni, giungendo solo a piccoli rimasugli sulle personalità dei protagonisti ma riuscendo tuttavia a regalare un valore estetico alla pellicola a livello di tristezza ed illusione (dal bagliore felice di Hailsham al grigiore opprimente del Cottage), invece il suo trio di attori dimostra non solo di essere convincente ma di riuscire a fondersi perfettamente l’uno con l’altro, apparendo da una parte forti per un destino già segnato, accettato e dall’altra terribilmente fragili, perduti, simili a dei fuscelli.
Come proferiva l’immaginaria cantante Judy Bridgewater, di un’immaginaria canzone Songs After Dark, “Darling hold me, and never let me go”, possiamo rivedere Kathy danzare in procinto di muovere i suoi primi passi verso il mondo crudele che l’attende, chiedendo disperatamente a quello vecchio di non “lasciarla andare”.
Alessia Grasso
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