L’ isola (che c’è) di Antonio e Fausto
MILANO- Non è la prima volta che le parole di un libro prendono forma su un palcoscenico e Cuore di cactus è l’ennesima testimonianza di questa osmosi. Il libro, da cui trae il titolo l’omonimo spettacolo che sarà in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 6 febbraio 2011, fu pubblicato nel 2010 e rappresenta una delle ultime scelte della compianta Elvira Sellerio prima della sua prematura scomparsa.
L’opera è un diario scritto da Antonio Calabrò, giornalista e scrittore palermitano che dopo l’ennesimo omicidio, che vede cadere sotto i colpi della mafia l’ amico commissario Antonino “Ninì” Cassarà, decide di abbandonare la sua amata-odiata terra per trasferirsi a Milano dove continuerà il lavoro di giornalista, raccontando la realtà sempre con gli occhi di un siciliano, che non dimentica né rinnega le sue radici.
A portare in scena il diario di Calabrò, Fausto Russo Alesi, uno degli attori più amati da Luca Ronconi, che lo ha recentemente diretto ne Il Mercante di Venezia al Piccolo Teatro. L’idea però di dare corpo alle pagine di Cuore di cactus è stata di André Ruth Shammah, da anni anima e cuore del Teatro Franco Parenti. Idea subito sposata da Alesi, solleticato anche da alcuni punti di contatto della sua biografia con quella dell’autore del libro: Alesi è infatti di origine palermitana, certo, di una generazione molto diversa da quella di Calabrò, ma che, al pari del giornalista, ha trovato a Milano nuove ragioni di lavoro e di vita.
Lo spettacolo, sotto forma di monologo, vede Alesi dare corpo e voce all’analisi, severa e appassionata, delle ragioni di una partenza dalla Sicilia a lungo rinviata, ma poi resasi improcrastinabile dai sanguinosi eventi che macchiarono l’ isola negli anni ’80. Ed è proprio su questo delicatissimo punto – cercarsi altrove o cercarsi lì? – che le domande e i dubbi incrociati di autore e interprete si fanno sempre più pressanti man mano che la narrazione prosegue. Il racconto, infatti, è denso di ricordi e nostalgie, ma anche di giudizi taglienti sulla crisi siciliana, sulle battaglie morali condotte da persone purtroppo scomparse (tra cui, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, che rappresentò per tutti i siciliani onesti una vera e propria speranza di cambiamento) e sullo “scummattiri”, ancora attuale, dei tanti uomini, donne, ragazzi che non si rassegnano all’idea che la Sicilia non possa cambiare, così come profetizzava il Principe Salina di gattopardiana memoria.
Emerge così dal racconto il ritratto della Palermo degli ultimi decenni del Novecento, un ritratto frutto dell’esperienza di Calabrò, che all’epoca poteva contare su un osservatorio privilegiato come quello di un piccolo, grande giornale come L’Ora, ossia un battagliero foglio anti mafia, ma anche un ponte per il dialogo tra culture e posizioni politiche diverse. Non manca ovviamente il periodo in cui i corleonesi iniziarono la loro scalata a colpi di pistola: sono gli anni della guerra di mafia, di quella che viene definita “una mattanza di corpi e di speranze”. E proprio la morte di un caro amico porterà l’autore a maturare la decisione di lasciare Palermo per trasferirsi a Milano, col fine di “cercare altrove una nuova misura di mestiere e di vita”. Un racconto civile insomma, che cerca, in filigrana, di non far perdere la speranza, affidandosi in chiusura alla lezione di Italo Calvino secondo cui “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, ma farlo durare e dargli spazio”.
Lo spettacolo è, insomma, una sorta di ode alle origini isolane, ma soprattutto è dedicato al desiderio di andare altrove, di vincere la tentazione di rassegnarsi, di non cedere all’idea che andarsene sia qualcosa di simile a un tradimento: temi che aiutano in qualche modo a rendere la storia diversa da altre già viste o lette dedicate a quegli anni bui che ormai, ça va sans dire, sono stati esplorati in vario modo da tutti i media; temi che consentono a Cuore di cactus di diventare un tassello di un mosaico ben più ampio fatto di libri, film, fiction che negli anni si sono accumulati e (si spera) hanno consentito a rafforzare una coscienza civica che spesso in questo Paese latita.
Per quanto riguarda l’allestimento, Alesi, che si occupa anche della regia, porta in scena uno spettacolo scarno e sobrio, con una scenografia minimalista, caratterizzata da alcuni giornali sparsi sul palco, un leggio e una barra di ferro aperta all’inizio del racconto e chiusa alla fine, quasi ad evocare un sipario inesistente, nonché la separazione tra il presente e il passato.
Anche le luci, non sono “invadenti”, limitandosi ad assecondare i movimenti dell’attore in scena. Ma il vero valore aggiunto dello spettacolo è stato, a mio avviso, l’accompagnamento al pianoforte capace di sottolineare ed assecondare alcune parti essenziali del racconto, scegliendo le note giuste al momento giusto.
Christian Auricchio
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