Di morte e transizione: il Bardo Thodol
ROMA- Morire non è una cosa che facciamo tutti i giorni. La morte è un concetto totalmente privato, un pensiero costante, un tormento lieve che torna a farci visita ogni volta che guardiamo un telegiornale.
Ma pur perpetrando la stessa idea con quotidianità, resta difficile affrontare l’argomento con disinvoltura. Si parla della morte come dell’unica cosa sicura della nostra vita, eppure è l’unica cosa che non saremo mai capaci di pianificare appieno.
Moriamo per sfiga, moriamo per tragedia, a volte anche per desiderio o per necessità. Eppure la morte è qualcosa di naturale, un po’ come il parto, e come quest’ultimo necessita di un’assistenza.
Gli egiziani questo lo sapevano, quando scrissero il Libro dei morti: il dio Sole combatte ogni notte contro i suoi nemici per il diritto a sorgere il mattino successivo. Un’immagine che si commenta da sola, che ci invita a non dare mai per scontato il fatto che il sole sorgerà per noi domattina. E in fondo la morte non è altro che una piccola apocalisse personale (o, ancora meglio, un’apocatastasi).
Nella cornice del Festival delle Scienze 2011, cominciato il 20 gennaio e dedicato appunto alla fine del mondo, l’Auditorium Parco della Musica ha posto i riflettori proprio sul concetto più transitorio della fine dei tempi. Il Bardo Thodol, testo definito erroneamente come Libro Tibetano dei Morti (in forzato collegamento con l’omonimo egizio), è alla base di Trans: la chiave segreta verso l’immortalità, un concerto eseguito dall’Orchestra del Conservatorio di Santa Cecilia e diretto da Tonino Battista, per musiche composte da Philip Glass e Karlheinz Stockhausen. L’evento ha visto la partecipazione straordinaria di Ngawang Tashi Bapu, meglio conosciuto come Tashi Lama, maestro cantore ufficiale del Dalai Lama, qui nella sua prima esecuzione europea.
La morte non è che uno stato liminale (un Bardo, appunto), un’esperienza intermedia, una transizione tra una vita e l’altra in cui ci esponiamo alla possibilità dell’Illuminazione e della realtà prima della rinascita. Un viaggio in cui veniamo accompagnati dagli overtones del Tashi Lama, cupi e vibrati accordi a una voce sola, che ci portano a un differente stato di coscienza. Alla sua voce si affiancano gradualmente le musiche di Philip Glass, originariamente composte per il film Kundun (di Martin Scorsese), all’epoca mai trascritte o pubblicate.
Glass, da anni sostenitore della causa tibetana e fortemente legato alla città di Roma, ha rielaborato i suoi vecchi lavori proprio in occasione di questo evento, qui alla loro prima esecuzione mondiale.
Affrontiamo quindi la morte nei suoi tre passaggi: il Bardo del momento della morte (chikhai bardo), il Bardo della realtà ultima (chonyid bardo) e il Bardo del divenire (sidpa bardo). Gli overtones del Tashi Lama si fanno sempre più cupi ed echeggianti, e culminano con il clarino del “Sand Mandala” di Glass.
A questo punto per sperimentare il reale dovremo fronteggiare l’allucinazione di divinità pacifiche e iraconde, in un crescendo musicale delirante, che si concluderà nel corale di una rinascita.
La seconda parte della serata è dedicata invece all’opera di Stockhausen che da il nome all’evento, e che, a detta dello stesso compositore, fu concepita (musicalmente e teatralmente) in sogno: “Ho sognato due file di archi da sinistra a destra– racconta- la seconda un poco sopra la prima. Suonavano in sincrono estremamente lento e forte, un vero muro di suono cromaticamente denso e compatto. Nello stesso tempo sentivo il suono di macchine in legno per tessere in movimento, o forse rumore di treni. Dio sa come sono arrivato a questa idea!”.
Gli archi sembrano essere colpiti più volte alle spalle dal rumore inquietante di un telaio meccanico, che detta loro il tempo in assenza di un direttore di orchestra, nascosto dietro al palco insieme ai fiati e alle percussioni. Noi riusciamo solo a intravedere qualcosa alle spalle delle due file di violini, sebbene i suoni più melodici provengano proprio da questa porzione d’orchestra invisibile. Ciò che è visibile invece ci inquieta con dei lenti accordi meccanici, intervallati da un telaio che a lungo andare altera le nostre percezioni (un po’ come il Lip Sync di Bruce Nauman), tanto da assomigliare al suono di una botola chiusa male, mentre qualcuno cerca invano di spalancarla (i fan di Sam Raimi ed Edgar Allan Poe sono quindi avvisati).
Tutto il palco è immerso in una intensa luce rosso-violacea, sempre secondo i dettami del sogno di Stockhausen. “Era la stessa luce che ho visto più volte in meditazione quando chiudo gli occhi e allontano tutti i miei pensieri”. Lo spettatore si trova quindi ad osservare il tutto da un punto di vista intermedio, tra il visibile e l’invisibile, per una composizione dettata dai Bardo della meditazione e del sogno. Ed è proprio nel regno dell’intermedio che convergono la scienza e la magia, i frattali e l’esoterismo, l’arte contemporanea e la ruota del Dharma, la cultura d’Oriente e quella d’Occidente…
Giampiero Amodeo
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