Pino Marino: la rinascita culturale ai posteri
Pino Marino, cantautore capitolino partito dal celebre Folkstudio nella sua lunga carriera ha vinto svariati premi: Premio Recanati, Premio Ciampi, Premio MEI come Miglior Cantautore 2001, prima edizione de L’Artista che non c’era, Premio Autori Sanremo 2005, Premio Lunezia Elite, tanto per citarne alcuni.
E’ tra i fondatori dell’Orchestra di Piazza Vittorio e dal 2006 è co- fondatore e parte integrante del Collettivo Angelo Mai.
Le sue collaborazioni nell’ambito del cantautorato romano vanno da Niccolò Fabi (Pino è autore del brano “Aliante” dell’ultimo album di Fabi) a Roberto Angelini, ma la peculiarità di Pino Marino risiede nel fatto di essere compositore, autore, pianista, chitarrista, con un timbro vocale limpido e coinvolgente e una capacità descrittiva nei testi che passa dal reale al surreale dipingendo lucidamente il presente.
Dotato di forte ironia sul suo MySpace si legge: “Pino Marino vive e lavora a Roma, così come Roma vive e lavora da lui tutti i giorni. Fra i due corre buon sangue, non si pagano reciprocamente le spese di condominio, ma si fanno spesso dei regali. Lei vorrebbe donargli una settimana a Sanremo, tutto compreso, ma non si fida tanto dei fiori. Lui per lei sta cercando su E- bay una Coppa dei Campioni in buone condizioni.”
E’ con queste premesse che lo incontriamo dopo una serata musicale e quel che ne viene fuori è una gran bella chiacchierata fuori dagli schemi che parla della vita, quella reale…
Ciao Pino come è andata?
Bene, l’importante per me nelle situazioni live è stare bene, avere un buon ascolto sul palco, tutto il resto, problematiche o aspettative, deve rimanere fuori per far arrivare qualcosa a chi ascolta, e anche stasera ce l’abbiamo fatta.
Quando sali sul palco che cosa cerchi di comunicare al pubblico?
Credo che sia opportuno, al di là dei generi e dei gusti, arrivare all’osso conclusivo di una necessità. Esempio: è necessario comprare il pane la mattina perché è importante per mangiare. Ci sono delle necessità che sono più intuibili, perchè sono “urbane”, tutte quelle meno palpabili che riguardano l’aspetto comunicazione, cultura eccetera, hanno una tangibilità meno evidente, meno tattile, ma questa c’è comunque. Quindi in realtà noi musicisti facciamo un po’ il carburatore della società civile, aspiriamo dai semafori tutto quello che arriva intorno e quando siamo intasati abbastanza “spurghiamo”. Facciamo un’opera di traduzione di tutto quello smog assorbito o di quell’aria fresca che ha riempito i polmoni e restituiamo le sensazioni, i pensieri a chi ci ascolta. Questa credo che sia una necessità di tutta l’umanità, a prescindere dal lavoro che si fa, abbiamo tutti bisogno di raccontarci.
Un’espressione della propria interiorità quindi?
Anche, ma già nel chiedere “come stai?”, in realtà ti sto chiedendo semplicemente “raccontami qualcosa”. E’ una sorta di incipit.
Tu sei molto impegnato socialmente, tra tutte le cose che hai fatto mi viene in mente l’idea originaria di avvicinare la gente ad un altro tipo di cultura, con l’Orchestra di Piazza Vittorio, oppure di far conoscere realtà tenute ai margini, come con il Collettivo Angelo Mai…
Sono due esperienze che hanno avuto uno start diverso. Il primo con l’Associazione Culturale Apollo 11 che è sfociata poi nell’Orchestra di Piazza Vittorio che nasceva dalle necessità culturale di un quartiere che stava in una specie di deriva territoriale: l’Esquilino era diventato terra di nessuno. La necessità era creare uno spazio all’interno di quella casbah che desse accoglienza a chi viveva sotto i portici e una casa a noi. E’ stato un esempio della possibile convivenza tra “diversi”.
Quella dell’Angelo Mai è stata una necessità diversa: l’idea era di creare un supporto a chi viveva un’emergenza abitativa. Nel centro storico di Roma (quartiere Monti N.d.R.) c’era un convitto abbandonato da tantissimi anni, 25 famiglie hanno deciso di occuparlo e hanno chiesto aiuto a noi musicisti affinché si parlasse della loro causa, delle loro storie. Il primo concerto è stato esclusivamente per le famiglie occupatarie, da lì poi l’idea di fare una rassegna su Pasolini (insieme ad Andrea Pesce) e così da supporto siamo diventati una sorta di Ufficio Stampa di questa cosa, una cassa di risonanza mediatica. Grazie al movimento urbano che siamo riusciti a mobilitare, parliamo di circa 50.000 iscritti, siamo riusciti ad ottenere un luogo per continuare la nostra attività, quando siamo stati “sfrattati” da lì, e abbiamo ottenuto dopo tre anni di lavoro uno spazio molto bello a Caracalla dove abbiamo ricominciato il nostro lavoro di sempre con un circuito di artisti molto interessanti.
Tre dischi (Dispari, Non bastano i fiori e Acqua Luce e Gas), molto premiati da critica e pubblico, e un nuovo disco in preparazione…
Sono passato attraverso una lunga disamina della necessità di fare un nuovo disco. Evidentemente è cambiata la scena musicale in questi ultimi tre anni, il fatto che i dischi non vendano più ha fatto tornare prioritaria in questo lavoro la scelta dei live. Quindi fare un disco a tutti costi, no. Però è anche vero che quando vai a suonare e racconti, la gente che ti ascolta vorrebbe anche avere la possibilità di ritrovare e riascoltare quello che ha sentito nel live. Sono cambiati anche i miei rapporti con gli editori e le case di produzione, quindi ho avuto anche un periodo di circa due anni in cui ho dovuto capire quale era la produzione giusta per me, per vedere ben promosso il mio lavoro affinché giungesse effettivamente alla gente.
Nel frattempo mi sono anche dedicato ad un libro di racconti indipendente dal disco che uscirà presto. Quindi a fine anno uscirà il disco e a catena il libro.
C’è qualcosa che hai in mente per il prossimo futuro, qualcosa che hai sempre voluto fare e non hai mai avuto il tempo o il modo di realizzare?
Sì, stare tranquillo, vorrei passare una giornata in cui non c’è lo scontro con qualcuno che “tira via”. Io soffro molto l’abbassamento della qualità e della responsabilità nelle cose. In questo momento sto soffrendo un po’ il contatto esterno, ritorno al carburatore di prima, rimango spesso intasato e non riesco a “stapparmi” e mi rendo conto che è perché si è abbassato tantissimo il senso del rispetto, della considerazione (nel senso di attenzione) ed è aumentata la volgarità anche nei rapporti interpersonali e non solo di lavoro, quindi in realtà mi ritrovo spesso a rinunciare a dei lavori, perché si è troppo abbassata la qualità dello stare insieme. Eppure non ho intenzioni migratorie, preferisco stare nel mio Paese e ogni giorno dire la mia, affinché si crei uno stacco che metta in discussione questo livellamento che si è creato.
Gli italiani si “sveglieranno”?
No. Perché non stanno dormendo, sono “morti”. La gente è stata narcotizzata e poi in blocco è deperita in uno “zombiesmo” di massa. Io credo che viviamo in una sorta di “recinto” (le Regioni, le Province, i Comuni) ed è evidente che in uno Stato ci sia la necessità di controllare, altrimenti ci sarebbe uno sbando collettivo, ma nel controllo automaticamente avviene una cosa quasi inevitabile, cioè si ottiene una omologazione della richiesta e della proposta, un livellamento che è né troppo né troppo poco, ma che tiene tutto in un limbo medio. Lo schiacciamento nasce dalla necessità di controllo, ma da questo schiacciamento non c’è più capacità di reazione. I grandi della cultura italiana di ieri non hanno corrispettivi oggi, è come se si usassero sempre meno parole per raccontare. Uno scivolone che porta ad un minor numero di talenti e ad una maggiore ed evidente striscia di appiattimento è sintomatico di un Paese che non è più in grado di produrre una reazione. Non c’è più un movimento organico dal quale nascono gli astri della cultura italiana, quelli che si espongono con responsabilità sono pochi e finiscono per fare la parte dei cani sciolti, di quelli che sono tenuti al margine perché dichiarati “pazzi”. Non credo nel risveglio, credo nella rinascita. Noi siamo qui per seminare qualcosa, ma la rinascita sarà di altri, ancora più disperati e svincolati dai favoritismi. La mia, però, non è una visione pessimistica delle cose.
Dal punto di vista artistico stiamo vivendo un mondo divaricato?
Nella crisi, nascono le reazioni più varie e istintive, perché da ciò che viene raso al suolo nasce sempre qualcosa di nuovo. Noi arriveremo a vivere un nuovo dopoguerra, pur non dovendo vivere la guerra vera e propria, per fortuna, e il nostro dopoguerra sarà un dopoguerra “civile”, e quindi sarà ancor meno tangibile, dilazionato nel tempo. Non siamo ancora arrivati al crollo culturale che porterà la rinascita, non si è raggiunto un accordo di massa, anche se non manca l’istinto individuale al cambiamento. Siamo in attesa di cogliere una reazione di evidente movimento.
Nel 2012 secondo il calendario Maya finirà il mondo, si dice. Magari si potrebbe usare un’interpretazione più filosofica per questa previsione e si potrebbe pensare ad un cambiamento di tendenza. Che ne pensi?
Che nel 2012 forse avremo appena finito questa intervista!
Grazie Pino, noi ti ringraziamo di cuore di averci dedicato il tuo tempo e le tue parole. E, in attesa del 2012, per l’anno che verrà aspettiamo il tuo nuovo lavoro…
Edyth Cristofaro
Foto: Giovanni Buonomo e Lisa Golden
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