Il Misantropo contro l’ipocrisia
MILANO- Uno dei principali pregi delle commedie di Jean-Baptiste Poquelin, meglio noto con lo pseudonimo di Molière, è stato sicuramente quello di far diventare le storie comuni, universali.
Infatti, dopo le iniziali difficoltà, le sue opere si imposero e conquistarono il grande pubblico proprio per la novità che rappresentavano, anche se raramente le trame e i soggetti erano originali, visto che il drammaturgo parigino attinse molto da altri autori. Nonostante le molte fonti a cui si inspirò, è però indubbio che Molière, ricercò uno stile di scrittura e recitazione meno legato alle convenzioni dell’epoca e proteso verso una naturalezza realistica, che descrivesse al meglio le situazioni e la psicologia dei personaggi.
Queste idee, che si realizzeranno in seguito nel teatro borghese, cominciano ad emergere con forza nella Scuola delle mogli prima e ne Il Misantropo poi. In particolare fu proprio in questa commedia che la feroce critica morale dell’epoca raggiunse il suo culmine.
Non a caso l’acuta osservazione della realtà fu spesso per Molière fonte di guai, specialmente quando i nobili, oggetto delle sue satire, si riconoscevano nei personaggi. E Il Misantropo non fu certo parco di questo tipo di soddisfazioni per Molière: si narra infatti che il Duca di Montasieur, precettore del Delfino di Francia, minacciò di bastonarlo a morte per averlo preso a modello nel creare il protagonista della commedia, Alceste, salvo poi cambiare idea e ringraziarlo dell’onore concessogli. Un onore senza tempo, visto che ancora oggi le sue vicende sono riproposte a teatro con grande successo. A cimentarsi stavolta con lo scorbutico personaggio, creato da Molière nel 1666, è Massimo Popolizio che fino al 12 dicembre è di scena al Teatro Strehler di Milano, per la regia di Massimo Castri.
Protagonista della storia è appunto Alceste, critico di professione e temperamento, amante della verità, fustigatore del compromesso e di conseguenza di quasi tutta l’umanità. Prova del suo carattere poco malleabile è data immediatamente, quando al suo amico Filinto (interpretato da Graziano Piazza, perfetto nel ruolo sotto tutti i punti di vista) spiega che pur avendo una lite giudiziaria in corso, non ha alcuna intenzione di oliare gli ingranaggi giusti per ottenere un giudizio favorevole. Di lì a poco Alceste si inimicherà anche il potente Oronte (un simpatico Sergio Leone), giudicando pessimo un suo sonetto, incapace com’è di mentire. Il problema però è che, nonostante la sua misantropia, si innamori non della sua bella e virtuosa cugina Eliante (Ilaria Genatiempo), ma di Cèlimène (Federica Castellini), una giovane e civettuola ragazza che passa il tempo a spettegolare e a far la svenevole con chiunque le capiti a tiro. Insomma, non proprio la persona giusta per un uomo tutto d’un pezzo come Alceste.
Una donna che il misantropo ama, ma al tempo stesso non accetta in quanto a differenza sua, che è in disaccordo continuo con la società, Cèlimène è perfettamente integrata al suo interno e non intende cambiare. Una situazione simile non può che esser esplosiva, difatti i nodi verranno ben presto al pettine fino all’inevitabile e non scontato finale.
In scena, come nella commedia di Molière, il mattatore è ovviamente Alceste, interpretato in modo impeccabile da Massimo Popolizio: bilioso all’inverosimile, borbotta, bofonchia, alza la voce, senza mai riuscire ad uniformarsi ai costumi dell’epoca…in tutti i sensi: anche dal punto di vista scenico, infatti, Alceste non indossa gli smisurati parrucconi e i costumi pomposi di tutti gli altri personaggi, ma veste in modo semplice, senza fronzoli, marcando ancor di più la differenza tra lui e il resto del mondo.
Per quanto riguarda la scenografia, curata da Maurizio Balò (che si è occupato anche degli straordinari costumi d’epoca), è funzionale alla trama: una miriade di candelieri e specchi bianchi riflettono quanto avviene sul palcoscenico, quasi a voler riprodurre all’infinito la dialettica tra individuo e società. Un effetto visivo decisamente d’impatto, che consente alle azioni di moltiplicarsi e ai protagonisti di apparire diversi e mai uguali a se stessi, a secondo delle angolature e delle prospettive dei singoli spettatori. Metafora nemmeno tanto velata di quel piegarsi, deformarsi e genuflettersi che spesso la società richiede per poter sopravvivere, allora come oggi. Lascia un po’ perplessi invece la scelta di non modificare mai la scenografia né le luci, cosa che ha reso la narrazione, soprattutto nei primi atti, alquanto statica. Comunque, a parte questo, la regia di Massimo Castri è stata nel complesso sobria, ma al tempo stesso incisiva, soprattutto nell’ultimo atto, quando l’opera di Molière mostra il suo vero volto, ossia quello di una commedia seria, capace di far ridere, ma anche riflettere sull’ipocrisia e il conformismo della società e sui rischi che si corrono nel voler combattere queste “patologie” con la sincerità e la schiettezza.
Christian Auricchio
Christian Auricchio, Il Misantropo, martelive, martemagazine, Massimo Popolizio, Milano, Molière, teatro, Teatro Strehler