Vecchia Inghilterra tra le rovine romane: Jethro Tull
ROMA- Nel 2008 hanno compiuto 40 anni di carriera, segnata da più di 3.000 concerti in 40 paesi e gratificata da più di 65 milioni di dischi venduti. Ma è davvero tanta la gente che si porta indosso dall’adolescenza la musica dei Jethro Tull: più che una seconda pelle, un’opera di pelletteria vintage long lasting, con inserti raffinati in seta e broccato.
Nel 1968 non tutti furono in grado di presagire una simile carriera, quando, al termine di un rabberciato periodo d’avviamento uscì a nome Jethro Tull (e non Jethro Toe, storpiatura occasionale che pure era toccata alla band come tributo alla gavetta) l’album This Was, un disco che marcava un esordio promettente, già mezza yard oltre il blues, con quell’uso innovativo del flauto che di fatto introdusse lo strumento come elemento di spicco del sound in un contesto che vantava già nuances rock e jazz, anche se non come il successivo, seminale, Stand up. E lo stesso flauto traverso, come è noto, veniva infatti usato non di rado con la tecnica del flautista jazz Roland Kirk, consistente nel soffiarci dentro vocalizzi vari, oltre al fiato puro e semplice, tecnica che Ian Anderson portò alle estreme conseguenze, facendovi filtrare dentro anche grugniti adatti ad un raduno di folletti variamente sbevazzati o a uomini di fatica delle campagne intenti a commentare l’avvento delle prime seminatrici meccaniche, inventate nel 1701 dall’agronomo empirista e inventore inglese Jethro Tull, da cui il gruppo di scapestrati e “scapigliati” rockers prese il nome.
Lo scorso mercoledì 14 luglio 2010, nello scenario petroso e odoroso di storia del Teatro Romano di Ostia Antica, in piena zona archeologica, i Jethro Tull hanno ancora una volta infuso nuova vita ai reperti archeologici di un passato ancora ben pulsante, nel cui ricordo vivono (“Living in the past”) legioni di nostalgici, insieme con una buona percentuale di stupiti ed ammirati giovani dal palato fine.
Ma non si tratta certo di un’operazione-nostalgia affidata al revival di un’epoca ruggente; lo sguardo è stato rivolto infatti soprattutto ai brani classici più celebrati, ma non è mancata anche qualche nuovissima proposta, addirittura inedita, ci è sembrato, ed inoltre i Tull non mancano mai, dall’alto della loro formidabile esperienza e sensibilità, di proporre al pubblico delle versioni riarrangiate e rinnovate dei loro brani. In qualche caso, ciò può sottrarre qualche brivido dalla schiena dei convenuti più tradizionalisti, ma testimonia un’effervescenza musicale che porta il quintetto di raffinatissimi interpreti a fornire sempre nuove inquiete riletture dei loro pentagrammi britannici prevalentemente boschivi. E questa non è forse un’attitudine progressive?
Il dibattito sulla natura progressiva, ovvero “avanzata”, contaminata e avanguardistica, del gruppo inglese si è concluso con una dichiarazione dei giudici (la critica) di “impossibilità a procedere” per insufficienza non di prove, ma di concept album. Il gruppo ne sfornò uno illusorio: “Aqualung”, uno ironico: “Thick as a brick”, ed uno vero ma non troppo riuscito: “A passion play” (entrambi gli ultimi due, però, top charting in USA), oltre a diversi abbozzi di lavori a tema più o meno unificante.
Tant’è vero che il solito ampio stralcio da “Thick as a brick” (Pesante come un mattone, come le concept operas progressive, appunto) viene presentato con la consueta perizia, dopo l’apertura affidata a “No-thing is easy”, “Beggar’s farm”, e “A new day yesterday” (brani prelevati da “This was” – il secondo pezzo dei tre – e gli altri da “Stand up”, il secondo album del gruppo, dal valore (come detto) fondante, in cui Anderson si assumeva in pieno le responsabilità della guida della band, dopo l’abbandono dell’altro potenziale leader, il chitarrista blues Mick Abrahams).
E se il passaggio forse più applaudito in “Thick as a brick” è quello che vede il ritorno del riff folk con accompagnamento di chitarra acustica, dopo la magniloquente e trascinante fuga strumentale, è altrettanto vero che il lungo e magnifico brano “Farm on the freeway” compare in rappresentanza di quella “A crest of a knave” che fu inaspettatamente premiato con il Grammy Award come migliore disco heavy metal nel 1989. Anomalie dello star system musicale, che probabilmente causarono una crisi di nervi ai Metallica e agli AC/DC, più legittimamente in corsa per il premio!
L’Italia rappresenta ancora un buon bacino di appassionati di progressive e dintorni, malgrado il grosso pubblico sia orientato verso prodotti più convenzionali e provinciali, e perciò costituisce una sorta di tappa obbligata per i Jethro Tull, ad ogni reincarnazione del mito.
Stavolta la line-up era composta dall’impagabile storico leader Ian Anderson, dal fido Martin Barre alle chitarre, con i Jethro Tull dal 1969, da un altro habitué, Doane Perry, alla batteria, con 25 anni di militanza nella band, l’arrangiatore orchestrale per il teatro John O’Hara alle tastiere e David Goodier al basso. Dalla svolta (dopo la lunga militanza nei pub dell’Inghilterra del Sud) quando gli fu offerto il posto di gruppo “residente” dei giovedì sera al Marquee di Londra, ne è passato di tempo, ma la vena davvero inesauribile del cantante, flautista, polistrumentista e arrangiatore ha sempre sostenuto l’identità della band, nonostante i fisiologici cambi di formazione e alcuni inevitabili passaggi a vuoto, che tuttavia restano opinabili: “A passion play”, come detto, raggiunse il primo posto nelle charts USA, ed anche la piega elettronica, keyboards-oriented, che il gruppo prese nei primi anni ’80, artisticamente presenta delle pregevolissime pagine di musica: “A” è un formidabile esempio di felice compromissione del mood più dark dei Jethro con la vague tecno-sintetica allora imperante: “Black Sunday” è il pezzo di maggior richiamo, ma tutto l’album è ben costruito attorno ad un senso di allarme derivato da oscure minacce ma nutrito con testi espressivi che sono un affresco necessariamente nevrotico del mondo moderno a cui la consueta teatralità de-cadente, conferisce un tono da tramonto fantascientifico della disumanizzata razza umana: “Batteries not included”.
Ma in questi ultimi tempi la band ha recuperato la sua dimensione più classica, e preferisce farsi rappresentare dai brani più folk-rock, sembra di poter arguire, memori forse del successo di “Songs from the wood”, quando, e sono le parole del leader sul palco, il 14 luglio scorso – “ci lasciammo alle spalle il prog, ma mai completamente”. L’inizio del brano omonimo è suonato da O’Hara alla fisarmonica, tanto per sottolineare il legame con i suoni e gli aromi tradizionali della musica popolare Old England e portare l’ennesima variazione al copione, aperto naturalmente in più di un’occasione all’irruzione del fantastico-mitologico, come anche in “Broadsword and the Beast”, per esempio.
“Past time in good company” è una rielaborazione di una composizione strumentale nientedimeno che di Enrico VIII: “Che uomo orribile che era, (fece tagliare la testa ad alcune delle sue mogli) ma anche buon compositore, per la verità”, interpretata e vivificata in maniera pregnante, con altrettanto gusto della arcinota e splendida “Bourèe”, strepitoso riadattamento in chiave jazz-rock del sesto movimento della Suite per liuto n° 1 BWV 996, di J.S. Bach, originariamente concepita per strumenti a tastiera, e resa invece da Ian Anderson più di altri pezzi un evergreen ed un piccolo manifesto poetico, paradigmatico rispetto alla ricerca del musicista scozzese nella tecnica flautistica.
Se poi, il posto che era di “Fat man”, nella scaletta, è stato preso dal nuovo “Hair in the wine cup”, anch’esso utile come intermezzo a base percussiva per far uscire Doane Perry allo scoperto e far suonare alla compagnia bongos, buka e “un tambourine con un buco nel mezzo” come ha dichiarato live il front-man, “A change of horses” sembrerebbe un altro inedito impregnato di quelle armonie classiche asiatiche che i Tull hanno iniziato a includere tra le loro influenze già con “Roots to branches” confermandole in “J-Tull Dot Com”.
L’invocazione corrucciata e amara di Anderson: “Maryyyy!” ha introdotto, a seguire, “Cross eyed Mary” (sì, proprio Maria dagli occhi storti), ruvido brano rock caratterizzato dal suono profondo dell’organo hammond e da una timbrica fosca adatta ad uno “stornello” dickensiano dedicato ad una disgraziata che conduce i suoi… traffici con un’ottica da Robin Hood dell’Highgate (da “Aqualung”).
Com’è noto, il leader, mentre sul palco passa dal flauto alla piccola chitarra acustica/mandolino, dimostra la sua verve di difensore strenuo dello stile da “vecchia guardia” incarnando con la sua gestualità (nel passato anche con gli abiti) un giullare medievale, o un menestrello elisabettiano o il signorotto di campagna, senza dimenticare i panni di rocker motociclista ormai “fuori quota” quanto ad età, che con rugginoso orgoglio auto-parodistico proclama di essere “Too old to rock’n’roll, too young to die”, e quanti, tra il pubblico dell’altra sera, si sentano toccati dalla tematica, direi che se si vuole aver tatto, non è lecito immaginarlo. Quanto poi sia stato assurdo considerare questa immagine fortemente distintiva in contrasto con la tradizione del rock lo dimostra l’esplosione elettrica finale di emozioni che mette in scena, come emblema di tutti gli alternativi offesi dal Sistema e costretti ad fronteggiare le offese di un destino da “losers”, la figura del vagabondo homeless Aqualung, divenuta icona per diverse generazioni, con il suo rimorchio di disorientamento postrurale e di rauco risentimento contro la Chiesa Anglicana. L’ensemble, bello carico, recupera l’aggressività e la spinta satirica di quando erano degli young angry men, e la riversano sul pubblico adorante appunto con la solenne e sarcastica “My God” dotata di intro ecclesiastica e poi delle impennate imbizzarrite della favolosa chitarra “grassa” di Martin Barre; con “Aqualung” stessa, sputata dal quasi sessantatreenne Anderson (auguri per il 10 Agosto!) in sprezzanti sillabe mettendo a dura prova la sua voce consumata da millemila gloriose performances, e infine con la sferragliante “Locomotive breath” che si sposta sui binari e mostra il derelitto protagonista che, rivivendo le scene peggiori della sua esistenza, guida in solitaria il suo treno della disperazione senza rallentare. Non si fermano neanche i Jethro Tull, che instancabilmente persistono nel perpetuare la loro complessa mitologia, facendo schiantare ogni volta la loro grande passione ed enorme qualità contro i nostri cuori, fermi sulla Storia del Rock.
il7 – Marco Settembre
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