L’insostenibile leggerezza dell’essere Lulù
MILANO- Dal 21 al 27 maggio è tornato al Teatro Franco Parenti di Milano, Lulù, spettacolo tratto dall’opera omonima di Carlo Bertolazzi, uno degli autori lombardi più rappresentativi del ‘900, celebre soprattutto per alcune sue opere in dialetto milanese, tra cui la celebre El nost Milan.
I temi trattati sono quelli tipici del verismo italiano, declinato in salsa lombarda: con i suoi racconti ci si immerge dunque in una Milano in cui passioni, amori, speranze di cortile e di ringhiera si scontrano con l’agiatezza e il benessere dei quartieri alti. E sono proprio questi i temi che vengono affrontati in Lulù, opera scritta in italiano nel 1903 e che potrebbe dirsi “sorella” di Molle Flanders o di Margherita Gautier, avendo come protagonista una giovane dalla moralità discutibile, una donna che, pur di essere quel che non è, tradirebbe chiunque. A differenza delle eroine citate però per Lulù il tradimento non è qualcosa di premeditato, ma di naturale: infatti, così come il gatto caccia il topo, così lei tradisce il suo amato di turno.
La storia vede come protagonista per l’appunto Lulù (interpretata da Sabina Colle), una ragazza del popolo che fa la ballerina e che vive facendosi mantenere. All’inizio dello spettacolo il finanziatore dell’agiata vita della ragazza è il ricco Riccardo De Farnese (Pietro Micci): sfortunatamente Riccardo scoprirà ben presto che la sua amata lo tradisce con un giovane di buona famiglia, Mario (Marco Vergani). La scoperta costringerà Lulù ad abbandonare i fasti della dimora messa a disposizione da De Farnese per tornare a vivere nella sua umile casa natale, con un padre ciabattino e giocatore incallito e una madre pettegola e avida (portati in scena ottimamente dai simpatici Marco Balbi e Chicca Minini.
Ma l’infedele Lulù non rinuncia alle sue aspirazioni sociali e grazie anche alla connivenza dei suoi genitori, riesce infine a farsi sposare da Mario, di cui dice di essere innamorata, simulando un’inesistente maternità. Ma il cromosoma dell’infedeltà non le dà tregua. Approfittando della temporanea lontananza del marito, un incontenibile bisogno compulsivo, complice anche la noia della sua nuova vita di campagna, la spinge a tradirlo. Ma il ritorno imprevisto del marito farà precipitare la situazione e bruciare le ali alla farfalla-Lulù.
Al di là della trama, che spesso sa di già visto/letto, il punto di forza di questa piecè è sicuramente l’intelligente regia di Andrée Ruth Shammah che fa irrompere in sala e sul palcoscenico il linguaggio televisivo: lo spettacolo è infatti costantemente ripreso da un operatore-attore sempre in movimento sul palco. Ma la “contaminazione” non finisce qui: la Shammah infatti inventa nuovi personaggi come il regista della televisione chiamata a riprendere la commedia che coinvolge il pubblico in sala, come i tecnici e i componenti della troupe televisiva che intervengono sui temi trattati mentre fanno il loro lavoro. Una sorta di teatro nel teatro che garantisce il giusto alleggerimento al dramma che sta andando in scena. In realtà questo impianto drammaturgico è nato per un motivo ben preciso, ossia da una richiesta fatta dal Franco Parenti alla Rai per migliorare la qualità tecnica del teatro trasmesso in radio e in televisione. Quindi inizialmente regista, cameraman e troupe erano davvero tali e non degli attori. Finito il progetto, la Shammah ha coraggiosamente deciso di proseguire in quest’esperimento, portando così in scena uno spettacolo moderno nell’impianto, pur essendo classico nei temi trattati, capace di regalare al pubblico un interessante quadro della società milanese di inizio secolo, caratterizzata per le forti disparità esistenti tra l’emergente borghesia e il (sempre) misero popolo.
Un discorso a parte meritano gli attori visti in scena, in particolare la protagonista principale, Sabrina Colle: senz’altro una bella donna, che ha di sicuro il physique du role per interpretare una moderna donna-gatta fascinosa e un po’ superficiale come Lulù, ma la cui voce non ha niente di ammaliante, anzi a tratti risulta anche fastidiosa. La recitazione poi, soprattutto nella prima parte, è apparsa monocorde e poco coinvolgente. Anche l’interpretazione di Marco Vergani non è stata delle migliori, portando in scena un discreto Mario. Come già accennato in precedenza, sono invece degne di nota le interpretazioni di Balbi e Minini, che regalano al pubblico due simpatici e ruffiani genitori: peccato però che il loro fosse solo un ruolo secondario. Infine, ultimo, ma non ultimo, è da segnalare l’impeccabile Pietro Micci: la parte del ricco e altero Riccardo De Farnese sembra tagliata su misura sul suo fisico longilineo. A questo va anche aggiunta una recitazione asciutta e senza sbavature e un portamento degno del ruolo ricoperto nella storia. Chapeau.
Christian Auricchio
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