Tiziano Scarpa, Stabat Mater
LIBRI- Normalmente ho l’ abitudine di evitare accuratamente i libri pluripremiati e/o plurivenduti, perché ho come l’impressione, magari errata, che spesso dopo un tot di copie vendute o di premi ricevuti ci sia una sorta di forza di inerzia che spinge i lettori a considerare un testo valido a prescindere.
Il caso però ha voluto che stavolta mi capitasse tra le mani proprio uno di questi fantomatici testi, ossia Stabat Mater, vincitore del Premio Strega 2009. A dire il vero il caso è stato più beffardo del solito, visto che questo libro mi è stato regalato non tanto per la trama, ma proprio perché era uno Strega: e pensare che ero convinto che le fascette auto celebrative che capeggiano su certi testi fossero carta sprecata! Evidentemente mi sbagliavo. Riflessioni iniziali a parte, inizierei con qualche curiosità statistica: scritto dal veneziano Tiziano Scarpa, Stabat Mater si è aggiudicato il premio Strega con 119 voti, uno di più rispetto al secondo classificato Antonio Scurati con Il bambino che sognava il mondo edito da Bompiani. Una vittoria senza precedenti nella storia di questo premio, mai assegnato prima d’ora con un solo voto di scarto. La vittoria inoltre era stata preceduta da un altro premio, il cosiddetto “Strega dei ragazzi”, in quanto Stabat Mater era risultato il libro più votato dai ragazzi delle scuole superiori romane.
Ma veniamo al romanzo, che nasce innanzitutto da una passione di Scarpa, ossia quella per il compositore veneziano Antonio Vivaldi, noto all’epoca come il prete rosso, soprannome legato oltre ai voti presi anche alla rossa capigliatura, che rendeva la sua sagoma inconfondibile. Ma il libro è frutto pure di una coincidenza, di cui parla l’autore stesso nelle note finali: Scarpa infatti è nato presso l’Ospedale Civile di Venezia, dove anticamente si trovava l’Ospedale della Pietà, un ex orfanotrofio dove Vivaldi insegnava e dirigeva le orfanelle in attesa che qualcuno le prendesse in spose e dove Scarpa ambienta il suo romanzo.
La trama vede come protagonista Cecilia, una bambina abbandonata alla nascita in un orfanotrofio: la sventurata non sa nulla del suo passato, l’unica cosa che le resta della sua famiglia d’appartenenza è una mezza rosa dei venti, l’altra metà, per tradizione, la conserva la madre, simbolo di un possibile, futuro, ricongiungimento. Cecilia fin dalle prime pagine, viene descritta come una ragazza difficile, piena di tormenti interiori: non dorme la notte, si alza dal letto, cammina lungo i corridoi, si siede sulle scale…ma questo è il meno! Durante le ore notturne, le accadono parecchie cose strane, cose che spesso fanno dubitare della sanità mentale della ragazzina: infatti la notte non è solo utilizzata per scrivere su un diario alla madre mai conosciuta, ma è anche l’occasione per incontrare un personaggio strano dai capelli di serpente, con cui Cecilia inizia a confidarsi e che scopre essere la rappresentazione della Morte. Tutti questi eventi vengono narrati dalla protagonista nelle prime pagine del libro, forse con l’intento di preparare psicologicamente il lettore ad una lettura non facile e per nulla consolatoria. La classica svolta nella vita di Cecilia arriva però a metà romanzo, quando giunge in orfanotrofio il nuovo insegnante di violino, che sostituisce il precedente andato in pensione: si tratta di un giovane sacerdote, dal naso grosso e dai capelli color rame, latore di nuove emozioni e musiche nella vita delle orfane. Ovviamente il sacerdote-insegnante della storia altri non è che Antonio Vivaldi che a lungo insegnò violino presso l’ Ospedale della Pietà.
Nonostante questo giusto riferimento, sono molte le incongruenze storiche di Stabat Mater, come lo stesso autore ammette nelle note finali. Insomma non si tratta né di un romanzo storico, né tanto meno di una biografia, considerando anche che il personaggio principale non è il prete rosso, che è una sorta di guest star, ma Cecilia con i suoi pensieri e i suoi monologhi. Purtroppo.
Scrivo purtroppo perché, a costo di sembrar insensibile, il triste personaggio di Cecilia non mi ha convinto e il suo dialogo immaginario con la madre (a cui si rivolge sempre con l’appellativo di Signora Madre) alla lunga annoia: le lettere che le dedica sono infatti infarcite di dolori, di pene, di dubbi e rappresentano l’unica valvola di sfogo di una vita da reclusa, considerato che le giovani orfane vivono come monache e neppure durante i concerti possono mostrarsi al pubblico. Insomma, soprattutto nella prima metà del romanzo, quando la ragazza è sull’orlo della follia, la lettura risulta faticosa, tanto che superare le prime 30 pagine ha richiesto un notevole sforzo di volontà. Quando poi, con l’ingresso della guest star sopra citata, la narrazione sembra diventar più interessante, il romanzo termina, rendendo quasi impossibile una qualche imprecazione, dopo 140 pagine infarcite di pensieri più deprimenti che tristi. Insomma, il classico libro che generalmente i bravi recensori definirebbero aulico e poetico, ma che al mio cuore di pietra non ha comunicato granché: limite mio, forse…o forse no.
Christian Auricchio
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