Don Giovanni ovvero un caleidoscopio di ricordi
MILANO- Iniziamo da una curiosità: Don Giovanni è “nato” nel 1630 dalla fantasia di un religioso, lo spagnolo Gabriel Téllez meglio noto come Tirso de Molina e non da quella di Molierè, anche se è indubbio che la fama di questo personaggio discusso e affascinante sia dovuta soprattutto alla tragicommedia del drammaturgo francese oltre all’ omonima opera lirica di Mozart. Nonostante però siano trascorsi quasi quattrocento anni dalla sua creazione, la figura di Don Giovanni rimane ancora un mito nell’immaginario collettivo e l’emblema dello “sciupa femmine” nel linguaggio parlato. Ma Don Giovanni non è solo questo. Andando oltre la soglia delle apparenze, si può ben notare come il motore delle sue azioni non siano le donne, ma il desiderio di raggiungere il piacere più intenso nonché la sete di esperienze e di novità; novità che Don Giovanni è disposto a raggiungere anche attraverso comportamenti estremi, come l’omicidio. Tutto questo senza minimamente curarsi delle conseguenze che simili azioni possono avere sulle persone che di volta in volta si trovano sulla sua strada. Questa, a mio avviso, risulta essere l’indispensabile premessa per capire meglio lo spettacolo che sarà in scena fino al 13 giugno al Teatro Libero di Milano, diretto e interpretato da Corrado D’Elia e andato in scena per la prima volta nel maggio del 2002.
Lo spettacolo parte dalla fine della storia: Don Giovanni (Corrado D’Elia) è risucchiato all’ Inferno ma stavolta non è solo…Sganarello (interpretato da un irresistibile Daniele Ornatelli), il suo fedele servitore, l’ha seguito! Ma è solo un attimo: visto che, in uno spazio asettico, formato da una fredda scatola d’acciaio riflettente, prendono vita e riaffiorano brandelli di memoria. Il pubblico si trova così investito da un vero e proprio flusso di coscienza attraverso il quale Don Giovanni rivive all’infinito le sue conquiste, rappresentate da 4 donne in abito da sposa che corrono all’impazzata sul palco. Ma questo convulso flusso femminile è interrotto da momenti di maggior chiarezza in cui vanno in scena frammenti della sua vita passata, come i suoi dialoghi con Sganarello. E’ in questi battibecchi che il servo, uomo semplice e timorato di Dio, lo rimprovera a suo modo per le sue malefatte, nonostante Don Giovanni non abbia la minima intenzione di pentirsi per le proprie azioni. In fondo, come lui stesso afferma, la sua massima sofferenza sarebbe quella di scontentare tutte le altre donne scegliendone una sola e lui di certo non può privare l’universo femminile del suo amore. Inoltre le sue idee sono rafforzate dalla convinzione che i discorsi di Sganarello siano dettati dalla paura che prima o poi il cielo potrebbe fargliela pagare per le sue malefatte. Ma Don Giovanni crede solo nella matematica, figurarsi se teme l’ira divina! Né tantomeno si lascia commuovere dalle lacrime di Donna Elvira (Valeria Padernò) che in questo spettacolo ha il difficile compito di farsi portavoce di tutte le donne ingannate da Don Giovanni e che, nonostante tutte le sofferenze patite, ancora si preoccupa per la salvezza della sua anima. Lo spettacolo prosegue veloce e concitato, fino a giungere all’inevitabile finale che chiude il cerchio con quanto visto all’inizio dello spettacolo: il colpevole Don Giovanni e l’incolpevole Sganarello precipitano all’Inferno.
Come già successo nella rivisitazione di altre opere classiche come Riccardo III e Cyrano de Bergerac, anche stavolta D’Elia ha realizzato uno spettacolo in cui prova a sintetizzare la trama di una storia, puntando soprattutto l’attenzione sulla psicologia di Don Giovanni, tratteggiando il ritratto di uomo fondamentalmente solo in quanto assolutamente egoista e insensibile alle altrui sofferenze. Il vantaggio di questa tecnica di trasposizione teatrale è quello di portare in scena spettacoli suggestivi e di forte impatto anche se con qualche pecca dal punto di vista narrativo. Sul palco, infatti, va in scena un caleidoscopio di ricordi, spesso difficili da collegare tra loro in modo da ottenerne una trama: così, rispetto all’opera di Molierè, gli eventi sono ridotti all’osso, cosa che rende difficile la comprensione di ciò che sta andando in scena. Difficoltà che temo sia ancora più accentuata in chi non ha mai letto o visto in teatro la tragicommedia del licenzioso Giovanni. A ciò va aggiunto che alcune trovate sceniche non sono del tutto chiare, a giudicare anche da alcuni sguardi perplessi visti in sala: chi rappresenta di preciso la bambina che compare in scena ad un certo punto? Qual è il significato della catena umana formata dalle donne sedotte da Don Giovanni? Per quanto riguarda la scenografia, composta da un cubo di acciaio riflettente dalle cui aperture Don Giovanni, Sganarello e le sue spose, sedotte ed abbandonate, entrano ed escono in continuazione in un rincorrersi e fuggire continuo, ritengo che sia funzionale a quanto andato in scena e che probabilmente non poteva esser diversa considerata l’impostazione data allo spettacolo. Azzeccata anche la scelta delle luci multicolori e della musica di sottofondo che spazia dal classico a suoni decisamente più moderni. Infine la recitazione: veloce e concitata, in linea con lo spettacolo. Insomma se lo scopo era quello di suscitare confusione e sgomento, di portare in scena l’animo irrequieto del libertino Giovanni, l’operazione è riuscita anche se, forse semplificando eccessivamente, direi, prendendo in prestito un certo linguaggio scolastico, che la pièce andata in scena è coerente nella forma, ma con dei margini di miglioramento nei contenuti.
Christian Auricchio, Corrado D'Elia, Don Giovanni, martelive, martemagazine, teatro