Omaggio a Rosa Balistreri (1927-1990)
[L’ILLETTERATA]
“Io ho incontrato Rosa Balistreri a Firenze, circa 22 anni fa, in casa di un pittore mio amico. Quella sera Rosa cantò il lamento della morte di Turiddu Carnivali che è un mio poemetto. Io quella sera non la dimenticherò mai. La voce di Rosa, il suo canto strozzato, drammatico, angosciato, pareva che venissero dalla terra arsa della Sicilia. Ho avuto l’impressione di averla conosciuta sempre, di averla vista nascere e sentita per tutta la vita: bambina, scalza, povera, donna, madre, perché Rosa Balistreri è un personaggio favoloso, direi un dramma, un romanzo, un film senza volto.” (Ignazio Buttitta)Donna veramente donna: tormentata dalla Storia e dalla cultura della sua terra d’origine, Rosa Balistreri, originaria di Licata (Agrigento) forse ha vissuto davvero due vite in una. La prima quella di stenti e di botte (dal padre, dal marito), la seconda quella di arte e fama.
Rosa Balistreri è stata ciò che è stata per necessità: necessità di riscatto, ma anche necessità di vivere ciò che covava dentro, nel profondo della sua anima siciliana. Poetessa di canti popolare, attrice di se stessa, cantante, lei non si sentiva un’artista e affermava che era il peso della cultura condivisa, riconoscibile, che la faceva comunicare con la gente. La persona era il personaggio, il pubblico non era una comparsa, ma l’interprete principale delle storie di vita quotidiana, dei sentimenti a cui lei dava voce. Una voce capace di farla amare da gente fuori dai confini della sua isola prima, dell’Italia poi. Interpretava dei ruoli, ma non recitava, rimaneva se stessa, incarnando in sé il dolore, la miseria e la speranza di tutto un popolo.
In politica si è avvalsa della sua arte per metterla al servizio della lotta per la parità ed i diritti delle donne, per protestare contro ogni forma di sopruso e segregazione e per favorire il diritto all’istruzione per tutti i ceti sociali. Combatté in prima linea con la sua voce diretta, nuda, cruda, ma calda come la sua terra, contro la criminalità e contro i crimini dello Stato, lasciandoci un ricordo indelebile della sua figura colorata, della sua voce accogliente e delle sue parole addolorate, vere, portentose.
Ha combattuto affinché il dialetto siciliano continuasse a vivere ed ha raccolto appieno l’eredità dei cantastorie, artisti che sin dall’inizio del novecento avevano portato a perfezione l’abitudine del racconto al sud facendo di esso un mestiere, che, fino agli anni ’50, avevano raccontato la Storia, i romanzi, la fantasia a tutta la popolazione analfabeta. Le sue parole sono tutt’oggi musica per le nostre orecchie, ed ogni sua lirica è un racconto fatto e finito a cui davvero non si può non dare ascolto. Frutto di viaggi e incessanti ricerche le sue poesie, d’Amore, di Guerra e di dolore, erano e sono custodi dell’identità di un popolo rapinato e unito a forza ad uno Stato lontano e diverso e risuonano ancora nelle nostre orecchie come ricerca di una libertà agognata:
“Arrivaru li navi
tanti navi a Palermu
li pirati sbarcaru
cu li facci di nfernu.
N’arrubbaru lu suli, lu suli,
arristammu allu scuru, chi scuru”
(da I pirati a Palermu)
“Quannu moru nun mi diciti missa
ma ricurdativi di la vostra amica
quannu moru purtatimillu un ciuri
un ciuri granni è russu, comu lu sangu sparsu
Quannu moru faciti ca nun moru
diciti a tutti chiddu ca vi dissi.
Quannu moru nun vi sintiti suli
ca suli nun vi lassu mancu dintra lu fossu.
quannu moru cantati li me canti.
nun li scurdati, cantatili pi l’autri.
quannu moru pinsatimi ogni tantu
ca pi sta terra ‘ncruci io muru senza vuci.“
(Poesia di Rosa)
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