Spariti II: code di lucertola
[CINEMACITTA’]
L’ultima volta vi avevamo lasciato con Vota Provenzano”, il primo docu-film dell’evento Spariti, del centro sociale Centocelle Aperte, che narrava il cambiamento del termine “mafia” all’interno del pensiero di massa al giorno d’oggi.
Questa volta tratteremo della seconda serata della rassegna, che ha presentato agli occhi dei partecipanti il documentario di Valentina Giovanardi, Code di Lucertola.
“La realtà è terribilmente superiore a ogni storia, a ogni favola, a ogni divinità, a ogni surrealtà”, così inizia la visione della pellicola che ci presenta la citazione di Antonin Artaud, e che ci fa letteralmente entrare all’interno di un mondo sconosciuto, oscuro quanto orrorifico: l’istituzione del manicomio.
IL 13 Maggio del 1978 venne approvata la legge 180, chiamata legge Basaglia, che mise fine all’esistenza dei manicomi in Italia,ma ciò ce ci chiediamo attraverso questo documentario è se una istituzione simile sia veramente riuscita a dileguarsi del tutto dalla nostra realtà e se riescano, in qualche modo, a sopravvivere nel tempo attraverso la memoria.
Code di Lucertola è un lungo viaggio all’interno di mura decadenti, di strutture sanitarie ormai logorate dal tempo e di testimonianze sconcertati su come certa gente venga internata forzatamente contro il proprio volere.
La regista Giovanardi, con profonda sensibilità e chiarezza, lancia immagini di forte impatto mentale, tra citazioni, malinconiche melodie e racconti di persone diverse che si sono ritrovate accomunate dallo stesso crimine.
Con grande maestria, Giovanardi, oltre a richiamare a sé professionisti del settore, come il medico psicanalista Giorgio Antonucci, intervista sei diverse persone che raffigurano lo stereotipo del “diverso”: abbiamo la donna femminista ed emancipata, il ragazzo che non segue l’ideale della famiglia, l’uomo che va contro le idee politiche del sindaco della sua città e la classica immagine della straniera da sempre vista con occhi diffidenti.
Tutte persone internate attraverso richieste di amici, parenti, vicini di casa e “nemici” di ordinaria quotidianità, trasformando quindi il conosciuto in una perturbante minaccia.
Lo psicanalista Giorgio Antonucci, attraverso la sua importante testimonianza, ci fa comprendere come venga concepito dalla medicina stessa la branca della psichiatria, abbandonando la salvaguardia per la salute dell’individuo a favore dell’ aiuto nei confronti delle autorità e della difesa dell’ordine sociale.
Il controllo dei pensieri e dei comportamenti alla base del problema della cura stessa ed Antonucci prosegue: “le persone nelle strutture manicomiali sono come carcerati, vivono in celle con lo spioncino, escono solo quando gli viene permesso e se si ribellano vengono messi in camice di forza. Gli interventi curativi sono spesso usati per annientare la loro libertà”.
Parole che a noi sfuggono da ogni comprensione realistica, pensando semplicemente al fatto che al giorno d’oggi, all’estero e soprattutto in America sembrerebbe quasi bizzarro per un individuo non avere il personale psicanalista, affrontando piccoli problemi quotidiani che tutti, chi più e chi meno, viviamo sulla nostra pelle.
Quanti artisti, geni e filosofi hanno tramutato la loro pazzia come la chiave vincente di un’esistenza eccentrica, passionale e coinvolgente: ne avremmo così tanti da citare, non meno il matematico John Nash, vincitore del premio Nobel per l’economia e portato sul grande schermo dallo straordinario Russel Crowe e dal regista Ron Howard, in A Beautiful Mind, affetto da una grave forma di schizofrenia che lo portava ad avere delle vivide allucinazioni.
John Nash è la prova vivente di come si possa ignorare e ribaltare la malattia, i propri oscuri fantasmi, anche attraverso l’affetto di una famiglia che ti supporta nei momenti del bisogno.
Un altro modello da citare sarebbe proprio colui che ha prestato le iniziali parole al documentario della Giovanardi, ovvero Antonin Artaud, uomo che fu totalmente proiettato nel mondo del teatro, come attore e scrittore: estremamente vicino al mondo dei manicomi per una terribile malattia che minò la sua infanzia, Artaud visse a pieno la sua vita di artista, affrontando la terribile esperienza dell’elettroshock.
“L’elettroshock, signor Latremoliere, mi riduce alla disperazione, porta via la mia memoria, annichilisce la mia mente e il mio cuore, mi trasforma in qualcuno che è assente e che conosce di essere assente, e si vede per settimane ad inseguire il suo essere, come un uomo morto a fianco di uno vivo che non è più se stesso.Dopo l’ultima serie rimasi attraverso i mesi di agosto e settembre assolutamente incapace di lavorare e pensare, percependo di essere vivo”, ed è questo il vero crimine delle istituzioni manicomiali, nel rendere un uomo incapace di intendere e volere, di fermare e reclamare un semplice “no”.
Corriamo così attraverso le riflessive note di Andrea Comandini e Dario Giovannini e scopriamo che con molta probabilità i film horror non esistono solo attraverso uno schermo, ma anche dietro il volto più rassicurante.
La mente umana è contorta, incomprensibile e per molti versi ricolma di quelle sfaccettature da sempre inafferrabili, e l’universo della psichiatria si porta dietro il compito di selezionare ciò che è “giusto”, prendendo per follia quello che è semplicemente diverso dalle regole comportamentali.
Attraverso le agghiaccianti parole dei protagonisti dell’opera ci rendiamo conto che esistono ancora persone pronte a bloccare i nostri diritti di esseri viventi, facendo in modo che le parole stesse perdano di significato e valore, annullandosi sotto l’effetto di un farmaco.
Secondo Artaud la falsa realtà si stende come un lenzuolo bianco sopra le nostre percezioni e, forse Giovanardi attraverso le sue riprese di panni stesi al vento, ci vuole comunicare che tutto è ancora un sogno e che dobbiamo svegliarci, per aprire gli occhi di fronte al mondo reale.