S-composizioni musicalmente senza rimedio
[IL_7 SU…]
Michele Simone ne spiattella, di storie, perchè la musica lo possiede e vive sotto la spada di Damocle della Tecnocasa (vedere il suo myspace per credere, www.myspace.com/miche-lesimone), ma il suo pop-rock fa propendere per il malore sentimentale ed il ricovero al baretto sotto casa. “Rivestiti” è uno spiegazzato lenzuolo che ricopre una nudità provocata dalla progres-siva sparizione dell’amore di dosso. Uno può anche farcela ma deve rivestirsi; tristezze sgranate che si fanno poesia per poi dissiparsi dopo “un giorno, una sera ed una mattina sola”, ma in compenso non sbiadiscono al primo ascolto.
“Sambuca”: senza di essa, senza questa bevanda da uomini astemi ma veri, come permettere alla passione di trascinarci e trattarci come puttane con le scuse più disparate? La marcetta folk avanza facendo deglutire un po’ di amaro per volta a chi è stato respinto con freddezza per colpa di “un caffè” che la tipa doveva urgentemente prendere speriamo in piedi su “un bidet”, e lo dico tanto per rendere assurda la sua voglia di trash. La vena sarcastica di Michele non ci risparmia le spregevoli villanìe di tipe sensibili solo alla furia del cow-boy, ma perfino un Giobbe domatore di giumente avrebbe perso la pazienza dopo la sesta volta, e la settima si sarebbe riposato, come pare abbia fatto Manitù, scrivendo una canzone sul rodeo e sorseggiando una sambuca messicana. L’arrangiamento grullo ma lieve fa pensare ad uno spompamento da Saloon della riviera romagnola, e non sparate (cazzate) sul musicista, please!
“Adesso” che mi “inventerò, adesso che non c’è più lei..?” La nostalgia non fa ridere granchè: “tutto passa così di corsa, qualcosa resta in mente se tu, solamente tu…”, ma non succede così, restano gli ultimi errori a corroderci al suono struggente e fatalista di una melodia che strappa smorfie di disappunto. “Film porno” è la vetta sprofondata all’indentro di una discografia che rigira come una trivella il vulcano nella piaga purulenta degli intristiti, anche se è vero che il peggio si condivide “in un unico contorto amplesso”, quale era anche quello che si consumava tra noi anche quando “eri soltanto mia”, prima che lei si realizzasse suinamente o perfino mentre lei già invece era lì, dentro il film che doveva servire ad altro, il film contemporaneo al sogno adolescenziale. Meglio far aeroplanini nel cesso? Non saprei, non ho mai provato neanche Urrà, e infatti c’era poco da dire Urrà con aria strafottente se il cuore era pesto. Ma l’arpeggio è piacevolmente doppiato da un organo anni ‘60 sul ritornello, e ciò aiuta a volar via col ricordo sano che si aveva di lei. “Over” è una ballad piena di passione, chitarre sostenute da un velluto tastieristico su cui scivola struggente la voce, in un crescendo da finale di concerto.
“Barbara al bar” è colei che… “mi illumini con la luce che hai, mi superi per ogni cosa che fai”. E quando uno pensa all’impazzata, al tavolino d’un bar: “Mi alzo e non aspetto più… In quel momento arrivi tu”. Il ritmo coinvolgente, veloce, si giova di una effettistica ben integrata nel brano, il cui ritornello è cantato con una nota ironica che gira intorno allo sdilinquimento per mostrare come sia questione di pochi momenti-si o momenti-no, ed il giudizio sull’altro sesso cambia appoggiandosi ai logori, ma in buona parte veri, pregiudizi negativi. In buona parte, mica sempre.
I Lads who lunch (www.myspace.com/ladswholunch) macinano emozioni come in un truogolo pieno di zamponi di rinoceronte triste, ma lo fanno lasciando a bollire anche i nostri pensieri, che colgono il riferimento ineludibile ai RadioHead, ma proseguono oltre, soffermandosi sulla polvere
(“Dust”) che il quartetto romano d’adozione spazzola via dai nostri cuori incancreniti dai stessi compianti che popolano il loro spartito raffinato e screziato sia da distorsioni non banali che da saliscendi emotivi di respiro internazionale. Ed infatti il batterista è transalpino, noblesse oblige! “Pusdiac”, vede l’alternanza tra un piano sensibile, elegiaco, e chitarre serpeggianti tra malinconie durevoli; il brano ha diversi momenti che si susseguono in una struttura dolente utile a trovare spazi per un vocalizzo il cui lamento scivola verso un finale sfuggente. “I wait and you sleep” scava nelle ombre quiete e vi trova a tratti segnali ripetuti di allucinanza creativa per un risveglio adrenalinico in cui una coppia supera con una corsa folle, a piedi, nella notte, le proprie smanie giovanili da precariato senza rimedio. In “Hope” sia la frase che il suono che fanno da contrappunto sotto alla voce amplificata sono ribollenti di umori, le idee germogliano da una tundra arruffata e una chi-tarra solista le attorciglia attorno al proprio manico. “Wake up” è una ballata desertificante, finché non iniziano ad arrangiarcisi dentro piccole note introspettive, perse in un disperato viluppo di sensazioni di cui l’ascoltatore è portato ad appropriarsi con urgenza, come se potessero essere le ultime occasioni prima di un’Apocalisse svalvolante in cui si respireranno solo gli umori sbagliati e letali invece di (“Instead of”) l’aria secca di mattini senza ma. Ed invece è a questi che si torna, in chiusura del brano, quasi a volerci convincere che, dopo immensi giri (dis)armonici, l’energia conservata da chi resta Uomo o Donna fino in fondo, vale a riscattare perfino l’esistenza più sbocconcellata. Sì, magari!
Ispirato ai collettivi degli anni ’60-’70, Zero Gravity Toilet è un progetto aperto a chissà quante influenze che vuole arrivare a produrre un disco cristallino e sognante solo come conseguenza di un’atmosfera composita di spunti di confronto, sperimentazione e ricerca conglobati attraverso l’uso di strumenti destinati a composizioni ariose affidate, sotto un’accorta supervisione, a ragazzi di estrazione geografica e musicale eterogenea. Il risultato, secondo i promotori di Zero Gravity Toilet, dev’essere un continuo work in progress di divagazioni cucite insieme a comporre un arazzo multicolore di intima creative-sharing, in cui ogni elemento dell’ensemble porti un movi-mento emotivo utile a definire un pastone cosmico di meditazioni trascendentali che galleggia nella galassia aspettando solo di essere raccolto e suonato da musicisti solidali che compongono in una “comune” di stampo “controculturale” come i Pr’Ustikas di Urano, che si tirano i cimbali col naso e li raccolgono clavicembalizzati con le antenne gonfie di echi solari. “Faster movimento” prende l’avvio da un delicato arpeggio doppio di chitarra e basso, con un accenno di tromba ed un sibilo spaziale ripetuto che introduce lo svilupparsi di un doppio riff chitarristico poi dominato da un’altra tromba, poi una pausa interlocutoria, cui segue intermezzo rock in cui anche il basso è in evidenza, ed è un piacevole melting pot alla Atom Heart Mother, ma tutto lo sviluppo del brano è sapientemente condiviso tra i componenti, avvolti da spigolature di un jazz da flower power con tocchi… cremisi (e ci siamo capiti) su scala universale, che il cielo li ascolti! “Boxing a meteora” è un addentellato di chitarre con un uuuuhh e dei vocalizzi sussurrati che introducono alla celebrazione musicale di quella volta che su Saturno i Gliagliuwoz riuscirono a respingere una meteora a pugni anziché con testate nucleari, come dovrebbero fare anche sui canali mediaset con quei tizi che hanno osato apparire solo per cinque minuti sulle reti per poi sparire nell’ano-nimato, in quel “paese reale” che langue davanti alla TV e sfugge ai sondaggi perchè è troppo impegolato con la lista (breve) della spesa. Ogni meteora, se sostenuta invece da un progetto di rilevanza artistico-sociale, può brillare e scampanellare nello spazio sonoro per un tempo necessario al proprio contributo solidale, ottenendo con ciò un buon riscontro in termini di soddisfazione, inversamente proporzionale alla lieve perdita di dignità di Edelfa Chiara Masciota schiacciata dal Gabibbo ubriaco su Paperissima. www.myspace.com/zerogravitytoilet.
The Reversense hanno una maturità non comune che gli permette di esasperare le loro alchimie rendendole ricche come un crogiuolo di ricami dorati, inclassificabili se non come lavori di cesello eseguiti su tappeti sonori densi e intrippanti, tanto per non esitare tra il suono, il senso e la mi-scela avant-pop degli stati d’animo. Si va dalla opulenta vocalità liberata in coppia sulla cover di “Una donna per amico”, irrobustita da chitarre nell’arrangiamento e nell’atteggiamento, al ritmo da almanacco obnubilato su “Everything burns”, che dimena effetti di chitarra e synth che non pos-sono non apparire “senseless” a chi è già sensibile di suo a certi discorsi che ipnotizzano con arabeschi inventati da un Aladino suonato da una lampada a carillon dalle decorazioni maniacali. Più incalzante “Light in the wind”, in cui anche il contrappunto sale in primo piano o scende in subordine in funzione del ritmo, mentre la voce, eloquente, su tonalità epiche da ultima spiaggia, lascia il passo in zona centrale ad un assolo convincente. Più riflessivo “Lontano lontano”, trasformata in una nenia sulle labbra di un elfo, lontano nel tempo e perduto come “quel volto e quell’aria triste che tu amavi tanto”. “Skyscraper” è dominato dal cangiante trascolorarsi di virtuosismo vocale e brulichìo chitarristico trionfante che si volta intorno tra guglie scolpite nel corallo e le vede perdersi tra le pingui volute di fumo di un cielo madreperlaceo e sinuoso nel suo avvilupparsi su una “città che sale” di boccioniana memoria ma tutta stretta attorno ai nostri sensi neobarocchi e progressivi. Almeno, mi pare. Ma la consistente comunicativa dei Reversense non lascia dubbi, se non quelli vezzosi che servono a creare sempre nuovi, umanissimi, brignoccoli di triburene!
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