‘Nzularchia: nomen omen
Innanzitutto urge un chiarimento sul titolo, ‘Nzularchia in italiano significa itterizia, febbre gialla, in quanto è un fenomeno che si manifesta principalmente con una colorazione giallastra della pelle e della parte bianca degli occhi, ma è anche la paura. In pratica il titolo è già un preludio allo spettacolo che si andrà ad assistere uno spettacolo in dialetto arcaico napoletano, misterioso, che come in un giallo svela i suoi segreti soltanto nel finale.
Uno spettacolo basato sul testo-rivelazione di Mimmo Borrelli, Premio Riccione per il Teatro 2005, autore – come recita la motivazione della giuria – «forsennato nella sua ambiziosa loquacità da inferno, uno scrittore furibondo, fluviale, forte». Ecco, diciamo che le motivazione addotte ben inquadrano questo testo di grande impatto emotivo anche se non di immediata e facile comprensione. In ‘Nzularchia, infatti, non c’è nulla che offra solidi appigli, tutto avviene nella coscienza del protagonista, tutto è avvolto in un’aura onirica dove la realtà, la memoria, l’incubo si fondono di continuo. Quella che risuona alla fine è una lingua dell’interiorità, impastata di filastrocche infantili, squarci poetici, immagini paurose ed evocative di un padre camorrista che vive nascosto in un bunker da anni per il timore di essere ucciso da qualche nuovo boss.
Ma andiamo con ordine: il pubblico viene catapultato in una sala le cui pareti nere sono coperte da abiti di ogni forma e foggia: abiti da donna, da uomo, da bambino invadono tutto, anche il pavimento. In questo contesto Gaetano (Peppino Mazzotta), il personaggio principale, trova come interlocutore Piccerillo (Nino Bruno), un ragazzino che all’inizio appare sospeso in aria, avvolto da un telo bianco e la cui vera identità sarà chiara solo verso la fine dello spettacolo. Questo il quadro iniziale, nel quale si innesta una narrazione basata sull’ uso esasperato del dialetto flegreo e della parlesia, un gergo massonico usato soprattutto dai camorristi, “categoria sociale” a cui è riconducibile Spennacore (un bravissimo Pippo Cangiano) ossia il truce e violento genitore di Gaetano, così chiamato per la sua abitudine a spellar vivi i suoi nemici.
La narrazione, a tratti incomprensibile anche per lo scrivente che è di origini campane, si snoda tra i ricordi di Gaetano, ricordi di infanzia, di violenza, ma anche legati al padre e al rispetto che incuteva al suo solo passaggio, rispetto “degno di un santo in processione”. Sui due giovani protagonisti però aleggia la presenza inquietante di Spennacore, di cui inizialmente il pubblico può ascoltare solo la voce, “in movimento” intorno alla sale, e i passi che terrorizzano Gaetano e Piccirillo. E proprio quest’ultimo che, ad un certo punto, viene bruscamente tirato per un piede dal camorrista, scomparendo al di là del fondale che crolla, svelando una sorta di caverna di bianco tappezzata al cui centro spicca un letto a forma di tomba e sul quale troneggia Spennacore, in canottiera bianca e pantalone del pigiama, con gli occhi sbarrati e simile ad un orco delle fiabe. Da questo punto in poi tutti i nodi vengono al pettine e la trama inizia ad avere un senso: Piccerillo non è altro che il fratello mai nato di Gaetano, morto, ancora feto, insieme alla madre, a causa di un raptus di gelosia di Spennacore che, rientrando a casa, aveva trovato la moglie a letto con un altro uomo. Scena questa spiata dal piccolo Gaetano dal buco di una serratura, rimossa, ma venuta a galla vent’anni dopo e rappresentata nella prima parte dello spettacolo. La struttura drammaturgica raggiunge a questo punto il suo climax con Gaetano che vince finalmente la sua paura (la ‘nzularchia, per l’appunto) ed affronta il padre matricida ed infanticida nel suo stesso covo. Alla fine dello scontro, verbale e non, Gaetano però preferisce il suicidio al parricidio, scelta dettata dalla sua volontà di dimostrare di esser diverso da quel padre che tanto detesta e preferendo lasciare il padre a marcire nel bunker da lui stesso voluto. Ma Spennacore è lungi dall’essere affranto dal dolore: nell’ultima scena infatti trasporta sul letto il cadavere del figlio pronto, gli scopre il petto e si appresta ad affettarlo, dimostrando ancora una volta tutta la sua brutalità.
Questa in sintesi la trama concentrata in circa 100 minuti di spettacolo: uno spettacolo “difficile”, che lascia per gran parte della sua durata perplessi,confusi, increduli, alla ricerca di un qualche filo conduttore, ma che assume tutto il suo significato nelle battute finali. Tutto concorre a creare una sorta di flusso di coscienza: dalle musiche di Paolo Coletta, perfette, cariche di pathos e capaci di creare suspence, alla scenografia fatta di mucchi di abiti ad opera di Roberto Crea. Bravi i 3 attori, tra cui svetta sicuramente Pippo Cangiano, un credibile camorrista sia per stazza che per espressività. Originale infine la regia di Carlo Cerciello che riesce a rendere a teatro un testo di certo non facile, caratterizzato da virtuosismi linguistici e dall’uso dell’antico vernacolo flegreo. In tutta franchezza, se vi aspettate di assistere al classico spettacolo teatrale puntate su altri lidi, se invece credete nella potenza evocativa della lingua e nella sperimentazione, allora ‘Nzularchia è lo spettacolo per fa per voi.
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