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“Redo” e “Graces”: la danza al Kilowatt Festival tra imperfezione e bellezza

Elisa Nocentini e Luca del Pia
Elisa Nocentini e Luca del Pia

La danza è un’arte complessa eppure semplicissima. Capace di essere astrusa e al tempo stesso diretta e viscerale. Il Kilowatt Festival di Sansepolcro (AR), la cui XVII edizione si è appena conclusa, e il suo direttore artistico Luca Ricci offrono al pubblico un grandissimo spettro di possibilità per entrare al meglio in questa disciplina così peculiare, dimostrando quanto uno spettacolo di danza possa riuscire a comunicare, emozionare e divertire il pubblico. Il 20 luglio 2019 sono andati in scena due spettacoli molto diversi, quasi antitetici per tono e pretese artistiche. Si tratta di “Redo” e “Graces”: struggente, intimo, adrenalinico il primo; ironico, aggraziato, giocoso il secondo.

Redouan Ait Chitt è un famoso breakdancer olandese, che con il supporto registico di Shailesh Bahoran, mette in scena le proprie evidenti malformazioni fisiche, raccontando gli enormi sforzi compiuti per inserirsi nella società. Le sequenze iniziali di “Redo”, titolo che accenna inequivocabilmente all’autobiografia del danzatore, ci introducono alla disabilità del protagonista in una maniera delicata eppure profondamente intensa: la mano sinistra con solo tre dita, l’ammasso di carne deforme con cui termina il braccio destro poco dopo l’attaccatura del gomito, la protesi che occupa la quasi totalità della gamba destra sono immagini inevitabilmente forti per lo spettatore, che dopo un primo disorientamento resta semplicemente di stucco nel notare la forza e il dinamismo con cui il danzatore inizia a riempire l’intero spazio scenico. La musica cresce, come in una cavalcata inarrestabile, e Redouan non smette un attimo di danzare in una lotta straziante con il proprio corpo. Cade e si rialza, e poi ancora, cade e rimbalza, in un’impennata che sfrutta la forza del braccio più debole. E poi ancora e ancora, in un crescendo di energia e rabbia che si riversa sulla scenografia (decine di lanterne appese al soffitto) e che infine esplode, lasciando il ballerino esausto e sudato e lo spettatore piacevolmente sconvolto.

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“Graces” di Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti prende una strada completamente diversa. La Gribaudi, pluripremiata performer e coreografa, mette in scena assieme a tre ballerini (Siro Guglielmi, Matteo Marchesi, Andrea Rampazzo) un’interpretazione danzereccia delle Grazie di Antonio Canova, riuscendo a trattare tematiche delicate come la bellezza, la grazia e il rapporto con la natura senza mai prendersi sul serio. La postura aggraziata, i corpi atletici e longilinei dei tre ballerini fanno da contraltare alle curve della Gribaudi, al suo corpo tozzo e imperfetto, in un gioco di contrapposizioni auto-ironico spesso esilarante. Su una scena completamente bianca, tra lo sbocciare di fiori e lo scorrere dei fiumi, si attua un ribaltamento di genere che ci fa ragionare sulla delicata bellezza della natura che riverbera anche nel corpo umano.

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La visione quasi consequenziale di questi due spettacoli non può lasciare indifferenti: si entra nel dramma personale di un uomo che supera con determinazione battagliera i limiti che il destino gli ha imposto e poi si ride con una donna capace di mettere in mostra la propria fisicità imperfetta e sfiorita in un inno giocoso alla vita. Il tutto attraverso il mero utilizzo del corpo in movimento.
La danza diventa così uno strumento potentissimo, ai limiti della perfezione, per trasmettere emozioni, per veicolare messaggi, per ricordarci che alla fine di tutto, qualunque siano le vite che portiamo faticosamente avanti, rimaniamo solo noi, con i nostri corpi, tutti egualmente stupendi e imperfetti.

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