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Siviglia, l’Andalusia e il Flamenco: che storia affascinante!

Edyth Cristofaro

Edyth Cristofaro

Toccare terra a Siviglia è emozionante. Siviglia è la terra del sole, delle arance in ogni angolo delle strade, del mausoleo di Cristofaro Colombo, della Plaza de Toros, della Cattedrale gotica più estesa del mondo (23.500 metri quadrati), della Giralda (torre campanaria dell’altezza di 96 metri), del cibo buono, dell’alcool che scorre a fiumi (sangria e mojito sono cose da non perdere) e della musica tradizionale, il Flamenco, uno dei prodotti culturali più notevoli e famosi di tutta la Spagna.

Luogo accogliente, caldo, dedito alle tradizioni, Siviglia e il Flamenco sono una cosa sola: ogni tienda fa suonare a gran voce i ritmi gitani andalusi, i turisti sono estasiati dai suoni e dalle splendide esibizioni nei tablao, e quella cultura così lontana da tutto eppure così intima, così orgogliosa di se stessa e delle sue radici, ha finalmente convinto proprio quell’organismo (l’UNESCO) che 5 anni fa aveva rifiutato la sua candidatura a Patrimononio Culturale Immateriale dell’Umanità, nel novembre 2010, a conferirgli il prestigioso riconoscimento, grazie anche al lavoro svolto dalle istituzioni responsabili della diffusione di questa forma artistica e della formazione dei musicisti, autori e ballerini, che nel corso di tutto questo tempo ha dato i suoi frutti, finendo per garantire la protezione di uno dei prodotti culturali più notevoli e famosi della Spagna, in generale, e dell’Andalusia in particolare.

Forma d’arte antica e complessa, frutto del sincretismo di differenti tradizioni culturali, il Flamenco èP3040030 la tradizionale danza e musica degli zingari dell’Andalusia, i gitani, originatasi dalle diverse culture e influenze del nord Africa, del sud Europa e dell’Asia medio-orientale che gli stessi Gitani, a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, si impegnarono a plasmare per ricreare una nuova identità musicale. Fino all’avvento del re Carlo III di Borbone, sovrano illuminato e tollerante (metà del 1700) i gitani furono trattati malissimo dalle autorità e per questo il flamenco fu un fenomeno artistico quasi clandestino, una sorta di rappresentazione di un pianto solitario, uno sfogo.
Carlo III invece favorì lo sviluppo e la circolazione di tutti i fenomeni artistici e culturali e fu proprio lui a concedere ai gitani la libertà di movimento e di espressione, anche attraverso la musica e la danza. Da questo momento in poi la cultura flamenca prese il sopravvento su altre forme parallele di espressioni artistiche, fino ad avere il boom definitivo con l’affermazione dei canoni dell’estetica romantica che facevano coincidere la vera arte con la purezza espressiva del popolo. Ed è così che il Flamenco, originato dalla fusione di ritmi moreschi, ispanici e afro, divenne una musica contaminata dal folklore delle colonie spagnole d’oltreoceano, dalla musica cubana, ma anche dai ritmi estatici della cultura indiana fino a giungere ai giorni nostri come evoluzione di se stesso in mescolanze esotiche, a volte anche azzardate (Flamenco commistionato all’Opera, per esempio).

Proprio di questi giorni la notizia che debutta a Roma la nuova concezione andalusa di ‘abbinare’ le sonorità flamenche ad opere letterarie di successo. Ad essere presentata nella Capitale sarà la prima nazionale dello spettacolo Mis ojos en tu mirada scritto e diretto da Caterina Lucia Costa, ballerina e coreografa (Teatro Cassia dal 23 al 26 marzo), che metterà in scena quattro personaggi femminili indimenticabili, reali e dannati come Zelda Scott Fitzgerald e Frieda von Richthofen, e come Eva e Bernarda Alba tratte dalle pagine di Giovanni Verga e Federico Garcia Lorca. Lo spettacolo è un collage inedito di storie d’amore, follia, libertà e seduzione che si consumano al ritmo del Flamenco. Attraverso simboli come il fuoco, la preghiera, il libro, si compone l’inno alla femminilità e all’erotismo. Il tema trattato nel titolo si materializza: lo sguardo di ogni donna si riconosce in quello delle altre mostrandone la comune identità femminile, fatta di tenacia, resa, vulnerabilità e infinita forza.

Andando al nocciolo, la fiamma che alimenta la cultura flamenca e che la fa vivere è l’estrema interiorità del duende, che è uno stato d’essere, una caratteristica che accomuna l’arte in continua ricerca, evoluzione, mutazione. Esso va risvegliato, nutrito e cresciuto perché sottintende alla magica forza della musica, della danza, della poesia, alimentando quell’energia e quel carisma che le rende impossibili alla ripetizione ma costanti nella mutazione creativa: “L’essenza del flamenco non è l’orgoglio, è il dolore. Quando danzano i ballerini guardano dritti davanti a sé. Il loro è uno sguardo di chi è pronto a ricevere l’amore o a difendersi. Di chi vuole trasmettere agli altri la propria energia e vedere tutto. Il Flamenco non è solo una tecnica di danza…è un modo di pensare, un modo di …vivere” (Antonio Gades, danzatore e coreografo spagnolo, uno dei principali interpreti del flamenco nel XX secolo).

Fonte cenni storici: http://www.informagiovani-italia.com
ADN Kronos

Edyth Cristofaro
Foto di Edyth Cristofaro

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