Il pop è una cosa seria.
Per questo quando una band che di pop ne ha sempre fatto poco, come le cosiddette band alternative e indipendenti italiane, all'improvviso sintetizza i propri suoni e abbandona le chitarre porta a una divisione di schieramenti.
I Management del dolore post-operatorio il 28 aprile scorso hanno pubblicato il loro terzo album, prodotto da Giulio Ragno Favero per La Tempesta Dischi. Il titolo, “I Love you”, prende spunto dall’omonimo film di Marco Ferreri dove il protagonista, stanco del suo rapporto con le donne, si innamora di un portachiavi con la forma di un volto femminile che al suo fischio risponde dicendogli "I love you!”. Le tracce confezionate dall’ensemble abruzzese sono 11 e diciamo subito che sembra un album di cover autoreferenziale dove la scrittura è al centro dei componimenti, con delle interessanti liriche sul nichilismo di Luca Romagnoli e soci. Due testi sono di altri autori: “Scrivere un curriculum” è tratto dalla poesia del premio Nobel Wislawa Szymborska, mentre “Il mio giovane e libero amore” è tratto da uno scritto anarchico del 1921.
La voce calda e potente di Daniele Berni e il ritmo incalzante delle chitarre di Marco Paradisi sono i primi ingredienti della musica dei Gran Torino che colpiscono, tanto da dover scomodare band come Soundgarden o Alter Bridge per dare un’idea del paragone.
Commistioni. Percorsi. In teoria questi due elementi li si possono ricavare e dedurre da tutto ciò che accade ogni volta che metti insieme due o più musicisti a suonare.
Quel che probabilmente è successo ai redivivi Masoko non è poi rarissimo. Una decade di onorata carriera da hipster idols, la loro, uniformemente spesa tra finissimo gusto vintage per il recupero revivalistico-enciclopedico in chiave pop della new wave che fu (ma proprio TUTTA), riconoscimenti mai del tutto privi di fondamento ma spesso spropositati che li vorrebbero geni variamente compresi e/o purissimi paladini del per pochi, e soprattutto live a pioggia a dar sfogo a talento e stile.
Poche cose possono essere difficili da inquadrare come i contorni dell'eterna questione della libertà autoriale di un musicista. O almeno: non per più di qualche minuto. Specie se ci si abitua all'idea di fondo per cui entrare in contatto con il mondo di ogni artista ripropone lo stesso problema di una traduzione: mentre lo si decifra, ci si rende conto che è piuttosto fisiologico che qualcosa finisca per andar perso.
Vi sfido a dare una definizione alla musica dei 2Pigeons senza scadere in una formula che sia restrittiva. Finirete per buttarle giù un po’ tutte senza riuscire a scegliere: trip hop, downtempo, dubstep, industrial, electro... In Retronica la sfida si fa più dura: ad entrare in gioco ora sono anche jazz, rock e suoni lontani.
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