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Il Maalox, la devozione naufragata, il sorcio

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il7I Malo si propongono di scalzare il secondo polo, il Male, dalla mappa politica italiana, dato che il loro slogan è “il bene e il Malo”, ma il rischio è che il Pierferdy nazionale non si lasci portare via il lavoro di terzo incomodo incline allo stallo eterno.

Sarà anche per questo che la discesa in campo dei Malo non può che essere accolta con favore dai delusi della Seconda Repubblica, vista la mal parata; infatti, se è vero che la scarsa efficacia delle preghiere del Ligabue come “Libera nos a malo” non dovrebbe portarci a sottovalutare le religioni organizzate, è tuttavia incontestabile, intanto, che spesso finiamo col rifugiarci nel Maalox per combattere l’iperacidità gastrica, cercando di scartare a priori l’ipotesi che si tratti di Malomalocchio ma piuttosto coltivando il dubbio che l’espressione rabberciata di quel tizio che ci guarda fisso quando usciamo dal portone sia dovuta ad una sua malocclusione mandibolare che, com’è noto, comporta spesso malessere conscio e inconscio giungendo perfino a modificare il carattere (in peggio). Ma almeno è bene che i Malo inizino col passo giusto, cioè con il “Terzo piede”, un pezzo che attacca con una punteggiatura blues in punta di chitarra elettrica, giusto uno stimolo su cui il pezzo non si impunta ma che funge da garbato accom-pagnamento lievemente contrariato, ad un testo in italiano sospeso tra il solito “sporco quartiere” e la possibilità di andare senza frontiere, ma la “routine o roulotte” si arrotola tra le ruote dell’auto così come dell’ abitudine. Il riff ricorda quello di “Modern Love” del primo disco solista di Peter Gabriel, ma qui non c’è virulenza instabile della ricerca post-punk indefessa, piuttosto una indolenza che trova il suo sfogo nell’assolo cantautorale bluesy, poco dopo che “un istinto nomade si risveglia in me, come un terzo piede incantevole, ma in quanto piede si fida di sé” e misura i passi tra l’uggia e l’accidia manifestando la saggezza dell’arran-giamento quieto e preciso con discrezione. “Canzone per i piccoli” ha la cadenza acustica di chitarra e basso, ma con gli sfrigolii distorti di un’altra sei corde ad indicare gli echi fastidiosi delle voci adulte, mentre nel ritornello il materializzarsi dei vecchi ricordi d’infanzia si tinge di un alone tastieristico mitico che sembra al contempo l’allucinanza ironica di chi era evidentemente predestinato a lamentarsi da grande, qui l’approccio light ma acuto e trasognato, il baluginare di una “sodomia immaginaria” rendono il pezzo un degno derivato di quel Robert Wyatt citato tra le influenze del gruppo. “Maledetta fretta”, di cui sul myspace è disponibile solo l’inizio, maliziosamente sembra volersi presentare conme un’improbabile cover della”Maledetta primavera” della Goggi, ma in realtà è solo un joke, Malo se la prendono qui con uno dei Malo maggiori, la fretta stessa, e sempre però con questa disposizione apparentenmente (forzatamente?) atarassica, quasi come se per  favorire il relax dei giovani ascoltatori non bastasse la buona musica, ma quest’ultima dovesse essere eseguita solo dopo aver preso il Valium. Ma la classe qui, è qualcosa in più dell’easy listening, è qualcosa di calibrato tra ambizione e leggerezza, qualcosa che evita di finire a “Pezzi”: sul myspace solo un segmento centrale, in cui la chitarra funky sostiene il monologo di qualcuno che forse ascolta dei “pezzi” in un concerto e non approva che le sue mani, pezzi di sé, producano un applauso che non condivide, e neanche iche  suoi piedi non vedano che lui è stanco e continuino ancora a seguire forse l’immancabile Lei, che sgattaiola continuamente tra tutta questa gente “che a me non dice niente”… “La mia vita immaginaria”, anche questo solo un sample, prosegue coerentemente su questa linea ideale, con la voce di Marco Loperfido che fa il normotipo (nonostante il nome che se è d’arte è geniale), ma lascia intuire eccome il travaglio che sopporta, e la struttura sognante che lascia spazio ad ingenerosi confronti con la vita reale, in cui le amiche di lei è molto più facile che congiurino contro di lui con lingua da rettile piuttosto che metterci la sospirata buona parola. Forse temono anche loro la sodomia di cui sopra, chissà!..  “Secondi” rappresenta un’altra ballata terapeutica, un elogio di quei “minuti secondi che non sono secondi a nessuno”, capaci come sono di regalarci una carezza inaspettata; lo schitarrìo ritmico è di un’ammirevole modestia nella sua studiata semplicità, e crea uno spazio mentale prezioso per il rimpianto di quegli scorci dell’era del beat in cui i ritmi asseconbdavano i tempi di vita ancora umani e in cui la sperimentazione prendeva ancora sentieri sussurrati come la Scuola di Canterbury insegna; oggi la delicatezza di certi riferimenti va sfiorata appena, per non spaventare le masse ignare, ed i Malo evitano questo male inserendo appena un filo di tastiera nella composizione, così filosoficamente eterea da non essere seconda a nessuno, neanche come generosità promozionale: il loro EP è downloadabile free su www.malo.bandcamp.com!

bal-musette-bandAnche i Bal Musette di Tommaso di Giulio hanno come fondamentale atout una certa tranquillità, visto il loro slogan “tutto il male vien per nuocere”, però sanno bene come anestetizzarsi artisticamente, riallacciandosi cioè alla tradizione del ballo popolare francese nato nei locali meno sofisticati di Parigi negli anni ’80 dell’800 e poi assurto alla massima popolarità dal 1945 e fino al 1960. La danza era paragonabile al nostro ballo liscio ed era accompagnata tipicamente da una cornamusa alimentata a soffietto (la musette) e dalla grelot-tiere (campanelline montate su una striscia di pelle). “Domenica-Natale” tuttavia non sembra mostrare quest’influsso più di tanto, se non nell’affacciarsi al cantautorato jazzato colto che sta ormai da qualche tempo vivendo una rinascita: il tempo è battuto su un fremito veloce che favorisce il volo d’angelo sui tanti quadretti di un’inverno ingentilito dalla poesia, ed il piano classico ma liquidamente mobile, guizza, già dalla prima ottima progressione, tra i ricordi cantati in italiano da una voce sicura della sua intonazione partecipe del Sogno, nelle cui pause fuggevoli il piano si snoda ancora e la voce dissimula con pigri vocalizzi “i pensieri di terza classe che mi arredano la testa con poca dignità”, e se Lei forse non è contraria ad offrirci un po’ di compagnia a Natale, dei carnefici poi in strada non esitano a massacrare a pugni il protagonista e a dargli fuoco con la benzina, col freddo che fa. “Ed ora la neve insopportabile, non distinguo più la terra dall’orizzonte; inutile discutere…” Una Christmas song col falò, “Natale, che male…” Invece “Le mie scuse più sincere” è più in diretta connessione con Carosone e Paolo Conte, con il suo cantato blaterato affrettatamente a mò di scuse da parte di chi sa quante attenuanti significative andrebbero menzionate, ed infatti le menziona, ma tra parentesi, in nome del buon gusto e dell’amore… per le balere. Il pizzicato entusiasma, ed il contrabbasso ha una profondità da pierrot che “mentre vado a fondo penso a te”; il poveretto, autoelettosi capro espiatorio per mostrarle il suo senso di sacrificio, si dimostra paciosissimo mentre la mannaia subacquea cala su di lui come un violino dell’est, e lui – dolce ripicca – la pensa ancora di più. Insiste che vuole dire addio al mare ma non vive più senza di lei, che lo muove gatton-gattone tra le note, dove naufraga di devozione. “Lievito” vanta dopo l’inizio incantato un arpeggio acustico ritmico (che ci ricorda quello della penultima se-zione di “Estonia” dei Marillion) e delle gocce atmosferiche d’elettrica su cui le parole di Di Giulio viaggiano come “un fiume in piena” fatto uomo, che però, per farsi trasportare, ha bisogno di lei e della sua grazia mentre prepara il caffè… La suddivisione strumentale dei ruoli resta la stessa anche in “Digiuno”, in cui la voce ha una sfumatura più terrea nel descrivere le barricate in cui bisogna ripararsi contro la città e le sue pubblicità, e l’arpeggio elettrico pensoso ha la relativa pesantezza di quando si nasconde “il disastro sotto il tappeto, finché c’è spazio”; il disagio è solo suggerito, come in una testimonianza di qualcuno con cui si può parlare, anche se è “a digiuno di ciò che è buono e vero e di un corpo che mi faccia sentire fiero di me”, perché l’appesantimento parte dalle sovrastrutture ma è qualcosa che si somatizza, altro che peso-forma, l’anima stessa è coinvolta. Elucubrazioni distinte, presenti e non lontane, nonostante la dovuta rarefazione, quelle di Di Giulio, che miscela malesseri esistenziali e bittersweet romance mettendo in mostra una scrittura musicale sobria ma evocativa, su cui innestare via via, a piacere, ulteriori elementi aromatici che ancor più facciano baluginare le malie perdute del sostrato a cui si richiama. “Paese – una canzone western” ha un giro di basso ed una nuance chitarristica, con tanto di fischio, tra Sergio Leone e Quentin Tarantino che non spiazza troppo perché la ballad è affogata principalmente nella cronaca cinematografica d’un amante sva-gato che perde le coordinate geografiche che lo separano dalla sua donna e, giusto dopo che lei lo ha minacciato al telefono di morte se non si raccapezza alla svelta, capita in un paese durante la festa del santo patrono, dove viene avvicinato da una bruna, una rossa, una bionda e “Nel sangue scorre salsa barbecue!” L’avventura mèlo è una narrazione da frontiera messicana, ma mentre le tre procaci ninfe sono degne di Russ Meyer, l’eleganza dei Bal Musette resta degna di Chabrol, e la livida follia del fegato toglie ogni patina hollywoodiana al finale: più che dionisiaco, alla Bukowsky da saloon di Grottaferrata!

The Anthony’s Vinyls sono sul myspace dall’11 Maggio 2010, ma è da molto prima che loro The_Anthony-s_Vinylscercano di smaltire il carico di tutti quei vinili che attraverso i decenni li hanno rinforzati nella convinzione che l’indie rock ed il punk devono dialogare. E questo non perché loro intendano rivendersi a prezzo quadruplo tutto il loro patrimonio di LP; no, infatti loro ritengono che non sia vero che solo the more impassioned and reflective man nutre un amore autentico per i suoi piaceri e svaghi, come sostiene Carl Gustav Jung; no, anche un ribelle scavezzacollo appena appena un po’ estroverso capace di fiondarsi a bordo di un carretto di legno giù per un ripido garage a tredici anni per puro divertimento, è capace, per pura virtù simpatetica, di appassionarsi veramente a chi fa dischi di rottura vestito come uno che è scappato di notte da un cimitero inseguito dai licantropi sordi, porta la cresta o il maglionaccio a righe rustiche, perché se anche questo non è detto che faccia lo sbruffone con la squinzia (lo fa, lo fa), però ha il merito indubbio di far sballare un botto di gente con la stessa rabbia sociopolitica che gli sgocciola dal naso col piercing! “I wanna give it a try”, unico pezzo presente sul loro myspace, rappresenta perfettamente sia loro, sia tutta la loro discografia presente e futura (fino al terzo CD, non vogliamo essere ingenerosi): il gruppo “vuole fare un tentativo”, “provarci”, o anche, tradotto più liberamente, “daje ‘na botta da pazzo”, a ‘sto star system. Hanno messo su un riff da guerriglia urbana armati di bottigliette di Tuborg, e senza vergognarsi di sudare ci hanno dato giù e dentro come se avessero fatto un’indigestione di Viagra non avendone bisogno, e quando la carica chitarristica a molla incontra lo snodo rinforzante della drum machine (convinta di essere anche una sex machine, magari a gettone), anziché partire un uragano di suoni usciti da una fornace siderurgica (dove la notte fanno pure i cornetti, però), attacca un ritmo parente di un quattro quarti su cui la chitarra elettrica manipola delle dita pruriginose e la voce abbozza delle strofe tra il cantilenato ed il minaccioso, derivate forse dall’ascolto distratto di “Run like hell” dei Pink Floyd, finchè alza il tono per impressionare il tecnico del suono, e poi si prende una pausa di riflessione, lasciando campo libero agli altri musicisti, che perdono però l’occasione per fare come gli pare e continuano a ruminare note ruvide immaginando la sepoltura d’uno spaventapasseri con un sorcio in bocca! La chitarra solista in effetti si mette in luce, ma è una luce spettrale in cui il batterista intravede mostriciattoli tozzi e picchia duro quasi alla cieca riuscendo con spavalderia a portare il gruppo fuori dal videogioco discografico splatter appena un minuto prima che il lead singer perda le tonsille a furia di declamare ripetutamente, con grinta da Interceptor, che lui vuole provarci, stanotte; ed essendo il testo in inglese, la notizia farà ben presto il giro del mondo, e chi deve capire, capisca e si tenga alla larga, perché se il contratto non sarà più che buono, questa è gente pronta a fare un macello. D’accordo che dal vivo questo è materiale che trascina, ma prima che le forze dell’ordine presunto ci trascinino via in catene dopo che in concerto ci siamo fatti arro-ventare le meningi da questi eroi dell’alternative punk, è bene che mettiamo le mani avanti rendendo loro il giusto merito con una recensione che non sia tutta perfettina, perché The Anthony’s Vinyls sono spartani e le educande le buttano giù dalla rupe!

il_7- Marco Settembre

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