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MArta(Live): sui Tubi, e non solo

Anche quest’anno il MArteLive è ricco e ghiotto. Ospiti della seconda serata saranno i Marta sui Tubi, che regaleranno in esclusiva ai MArteLivers un concerto del tutto innovativo e fuori dagli schemi. Abbiamo raggiunto telefonicamente il cantante del gruppo, Giovanni Giulino, e ci siamo fatti raccontare qualcosa su questo progetto. E non solo…

Arte sui Tubi e MArteLive: i

 

MArta(Live): sui Tubi, e non solo

 

Anche quest’anno il MArteLive è ricco e ghiotto. Ospiti della seconda serata saranno i Marta sui Tubi, che regaleranno in esclusiva ai MArteLivers un concerto del tutto innovativo e fuori dagli schemi.
Abbiamo raggiunto telefonicamente il cantante del gruppo, Giovanni Giulino, e ci siamo fatti raccontare qualcosa su questo progetto. E non solo…

Arte sui Tubi e MArteLive: non potevate scegliere un evento migliore per l’esordio di questo progetto di spettacolo totale. Conosci MArteLive, sai com’è strutturato?

 

Conosco bene Peppe, da tempo (Beppe Casa, ndr). Siamo sempre in contatto, abbiamo spesso fatto cose insieme, come per esempio a Bologna, l’anno scorso. Visto che quest’anno ci sarà un concerto un po’ particolare, perché suoneremo in mezzo a installazioni e durante performance di altri artisti…

…infatti quello che volevo sapere era se, l’esordio a MArteLive che immagino tu sappia essere un festival che condensa varie forme d’arte, sia un caso o se è stato scelto apposta per questo tipo di concerto.

 

Mah, direi tutt’e due. Avevamo deciso di fare questo progetto che si chiama Arte sui Tubi e di suonare in location particolari. A Milano per esempio suoneremo alla Fondazione Pomodoro, una delle più grosse gallerie d’arte italiane, in mezzo quindi ad opere d’arte, altri artisti, ecc. E la stessa cosa faremo all’Alpheus di Roma, che non è una galleria d’arte ma un locale per concerti. Noi non saliremo sul palco, nel senso che faremo uno show diverso. Stiamo provando a concepire uno spettacolo che non sia il classico concerto ma qualcosa di diverso. Ma non voglio aggiungere troppi dettagli, sennò verrebbe meno il fattore sorpresa.

Parliamo di voi. Chi/che cosa sono i Marta sui Tubi? Da quali territori musicali provengono? Da cosa nascono, cosa li ha “ispirati”?

 

Per il progetto di Marta sui Tubi non abbiamo pensato a fare “canzoni di genere”, cioè rock, punk, folk e così via. L’obiettivo non era quello di fare delle canzoni in linea con un movimento culturale, o una scena indipendente o quant’altro. Abbiamo semplicemente buttato giù il materiale che avevamo accumulato negli anni e abbiamo frullato tutto insieme con la nostra malattia mentale (ride, ndr) che è quella di fare pezzi un po’ storti. Così sono venute fuori le prime canzoni. Poi il tutto si è evoluto e cambiato leggermente negli anni, anche per l’ingresso di diverse persone.
Ciascuno di noi si porta dietro un bagaglio di ascolti e di esperienze musicali diverse.
Per quello che riguarda me, io vengo dalle sonorità del post-punk inglese di fine anni Settanta e inizi Ottanta: gruppi come Joy Division, The Cure, Siouxsie and The Banshees. Anche se so che non viene fuori molto questo, nelle cose che facciamo…

…infatti, non l’avrei mai detto…

 

Carmelo invece è più portato verso sonorità folk inglesi degli anni Sessanta, tipo The Beatles, Nick Drake
Mettendo tutto insieme sono venute fuori delle canzoni che comunque non vanno in nessuna di queste direzioni. Abbiamo iniziato e sono venute fuori delle cose un po’ spontanee. Anche perché l’obiettivo era quello di fare qualcosa di diverso rispetto a quello che c’era in circolazione.
Quando abbiamo iniziato noi, sette anni fa ormai, in Italia i gruppi rock che andavano forte erano, diciamo, i soliti ossia Marlene Kuntz, Afterhours e tutto il movimento delle Posse, gli Africa Unite, ecc. Noi non volevamo entrare dentro questo “contenitore” di musica indipendente. Ci hanno infilato lì e ci sta benissimo; ma non volevamo fare una band che si ispirasse a nessuno dei musicisti che erano in circolazione.

In rete ho trovato varie vostre cover, ve ne cito alcune: “From the Morning”, “River of Deceit”, “Where is my mind”.

 

Che obiettivo ha l’esecuzione di cover durante i live? Un modo per intercettare nuovo pubblico? Un modo per rafforzare l’identificazione di quelli che già vi seguono? O semplicemente un’occasione per suonare i vostri brani preferiti e comunicare le vostre origini musicali?

 

Solitamente quando si sceglie di fare una cover lo si fa perché quella canzone ti piace tanto. Noi quando facciamo cover non ripetiamo pedissequamente la canzone originale ma cerchiamo di personalizzarle. Per esempio “From the Morning” è diventata “Du matinu”: abbiamo tradotto il testo in dialetto siciliano e abbiamo visto che si adattava perfettamente.
Penso che sia un atto d’amore nei confronti dei tuoi ascolti e di quello che certe canzoni hanno significato per te negli anni. È semplicemente il nostro modo per suonare una cosa che ci piace tanto.

Sentendoti parlare prima, dei generi musicali, mi è venuta in mente una cosa. Come si concilia espressione e comunicazione? Come si riesce a trovare l’equilibrio tra il dire quello che si vuole dire e il riuscire a portarlo fuori, in una canzone?

 

Il mio obiettivo come autore di testi è quello di ricercare sempre la verità nelle cose, nelle cose quotidiane, nelle cose più piccole. Quando inizio a scrivere il testo di una canzone parto sempre da qualcosa di indiscutibilmente vero: cerco di partire da un concetto in cui si possono rispecchiare tante persone che magari hanno provato una determinata sensazione, e poi vado avanti e sviluppo quel concetto. Non sono dotato di una grandissima fantasia, non riesco a scrivere di cose che non ho vissuto personalmente.
Si parte da lì, poi la cosa può evolversi, poi può entrare anche l’elemento fantasia e portarla a un punto diverso da quello da cui era partita. Però principalmente parlo di esperienze personali, o di osservazioni. L’importante è comunque partire da qualcosa di vero. Come diceva Hemingway.

Un’altra cosa, a proposito dei testi. Cantare in italiano è sempre una sfida. Per lo meno se ci si pone in un’ottica un minimo commerciale. Si scrive per comunicare, per portare fuori ciò che diversamente resterebbe nel famoso cassetto. Come riuscite a creare, anche in questo senso, l’equilibrio tra espressione e comunicazione?

 

Cantare in italiano? Non credo. A me viene naturale cantare in italiano, non è uno sforzo né un adattamento. È semplicemente la mia lingua, la parlo tutti i giorni. Penso in italiano, non vedo perché dovrei cantare in un’altra lingua.
Per noi è la cosa più naturale del mondo. Le logiche del commerciale non ci appartengono, non ci interessano.

Magari però, scrivere in italiano è più difficile, perché l’italiano è una lingua più difficile, dal mercato più ristretto…

 

Non condivido. Le parole ti parlano, sono anche musicali. Sta all’artista poi andare a cogliere la musicalità di queste parole e farle esprimere al meglio, in termini musicali, di melodia, di metrica. Ma non è affatto difficile secondo me arrivare a coniugare espressione e contenuto, anzi è il nostro punto di partenza. Poi dipende da come componi. Se canti in inglese e poi traduci in italiano, rimane tutto un po’ farraginoso, ma se parti dall’italiano non c’è problema.

Quanto sono importanti per voi i testi?

 

Il testo è fondamentale, è la base più bella del mondo. Però se quello che dici è banale, pregiudica anche la base più bella del mondo. Bisogna avere qualcosa da dire, se non ce l’hai lasci il pezzo strumentale. Anche a noi è capitato, non è un problema. Però se devi scrivere delle cose è bene che abbiano spessore, perché altrimenti costruisci una bottiglia vuota, ma invece bisogna riempirla di buon vino.

Comunque credo che non ci siamo capiti sul discorso della parola e della scrittura…

 

Io ho capito che tu pensi che esprimersi in italiano sia più difficile rispetto a scrivere in inglese.

Non scrivere, avere “smercio” fuori, a livello banalmente commerciale. È più difficile che la musica italiana esca fuori dall’Italia o addirittura dall’Europa…

 

Guarda che vale lo stesso anche se è cantata in inglese: non esce niente. Non mi risulta che ci siano gruppi italiani che vadano in giro per il mondo a cantare in italiano, tranne Ramazzotti o la Pausini.
E quando vanno all’estero cantano in spagnolo. In Inghilterra Ramazzotti e la Pausini non li conosce nessuno, ma se vai in Sudamerica o in Spagna senti le loro canzoni dappertutto, in spagnolo.
Poi, l’obiettivo di un musicista rock italiano non deve essere quello di andare a conquistare il mondo, cantare in inglese e cercare di arrivare a essere famoso in America, perché non è il nostro campo, non è il nostro campo di battaglia: il rock l’hanno inventato gli inglesi, gli americani. Non possiamo andare lì ed avere la pretesa di insegnare loro a suonare.
Come quando vuoi mangiare una buona pizza: difficilmente la mangerai fuori dall’Italia.
Se vuoi ascoltare del buon rock cantato in inglese, devi andare negli Stati Uniti, devi ascoltare dei gruppi che arrivano da lì.

Allora a questo punto, che senso ha fare concerti, incidere dischi se non per portarlo fuori, per farsi conoscere, farsi ascoltare, condividere emozioni? Se vuoi scrivere perché ti piace scrivere, ti chiudi in camera, scrivi e canti…

 

Dipende tutto dal tuo background, secondo me. Gli artisti che vengono fuori dai reality questo problema non se lo pongono. Per noi è importante esprimerci bene e in maniera compiuta, essere soddisfatti dei nostri pezzi. Poi la sorte di questi pezzi, ci interessa relativamente.
Ci piacerebbe che venissero trasmessi in radio, in TV, ma il più delle volte questo non capita, perché il nostro stile probabilmente è poco radiofonico, o i nostri pezzi sono troppo provocatori per passare sui grandi mezzi di comunicazione. Ma questa non è un cosa che ci affligge l’anima, noi siamo abbastanza soddisfatti. Anche perché poi la gente ci viene a vedere, canta le nostre canzoni, e siamo contenti così…
Chiaramente se venissero trasmessi di più in radio sarebbe meglio per tutti, però non è che possiamo dannarci l’esistenza.
Il senso ce l’ha, perché tu devi uscire dalla tua saletta con un’idea della quale sei soddisfatto, e devi esprimerti con delle canzoni che ti piacciono.
Io vado a letto e faccio dei sogni bellissimi, che non sono trovarmi su palchi più grandi. Ma sono dati dal fatto che mi sono espresso in maniera compiuta, che per me è tutto.
Il destino dei pezzi è una cosa secondaria. L’esperienza ci insegna che se tu scrivi per te stesso e sei consapevole di avere scritto qualcosa di bello, che ti piace, arriva di più anche alla gente. Noi non saremo mai capaci di metterci a tavolino e scrivere una hit, non è nelle nostre corde. Sappiamo che non è la nostra direzione.

Ritorniamo ai Marta sui Tubi. A un certo punto della vostra storia entra la tastiera.

 

Le tastiere – genericamente intese – sono strumenti egocentrici esattamente quanto lo sono le chitarre e possono influenzare, anche molto, la scrittura delle canzoni.  

 

Com’è cambiata la vostra, se lo è, con l’ingresso di Pischedda?  

 

Innanzitutto, credo che la tastiera sia uno strumento importante, ma non così tanto come dici. È uno strumento come tanti. Si possono fare anche pezzi solo batteria e voce.
La tastiera può assumere varie vesti, può essere un elemento portante, ma non è il nostro caso. La struttura dei nostri pezzi rimane sempre chitarra, voce e batteria; poi gli altri strumenti che di volta in volta entrano a far parte delle nostre canzoni hanno un ruolo meno importante, più di arrangiamento e di colore.
A livello di scrittura dei pezzi direi che non è cambiato nulla. Il nostro modo di suonare rimane sempre lo stesso: i pezzi fino ad ora sono nati chitarra e voce, anche quando è entrata la tastiera, con Paolo Pischedda in Sushi e Coca , i pezzi erano già stati composti.
Lui è entrato dopo e ha colorato alcune delle canzoni con grande professionalità.
Poi, insomma, la tastiera è uno strumento abbastanza duttile: perché tastiera significa pianoforte, hammond, organo, synth e tutto quello che si può suonare con i tasti.
Noi cerchiamo di non connotare troppo le canzoni con un singolo strumento, con uno stesso suono ma di spaziare e cercare di trovare sempre sonorità diverse. Adesso abbiamo anche il violoncellista in formazione; anche lui, con uno strumento apparentemente rigido, è in grado di farlo suonare a volte come un basso, o come un contrabbasso, a volte come una tastiera per tutta la serie di effetti che usa.
Insomma, dal primo album, la nostra scrittura non è mai cambiata. Ci troviamo in saletta Carmelo, Ivan ed io, ci mettiamo lì a suonare e quando esce la canzone la sottoponiamo ai nostri altri due musicisti e la finiamo insieme.

Ora siete al lavoro per il nuovo album. Come si colloca nel vostro percorso artistico?

 

Il disco ancora non è pronto, la nostra intenzione è di farlo uscire entro la fine dell’anno.
In questi giorni abbiamo registrato una manciata di pezzi. Il singolo che esce proprio oggi (29 aprile, ndr) dà un assaggio di quella che potrebbe essere la direzione del nuovo disco.
Ma anche tra questi pezzi, non ce n’è uno uguale all’altro. Si potrà rispondere a questa domanda solo dopo che saranno pronte le canzoni, e che avremo scremate e scelte quelle che andranno a far parte del disco, che certamente avrà allora una fisionomia più compiuta.
In questo momento ci sono tantissime idee e tantissimi spunti: la direzione è sempre quella di andare oltre i nostri limiti. Se con Sushi e Coca avevamo fatto una cosa molto diversa rispetto ai dischi precedenti, con quest’altro disco che uscirà tra un po’, l’intenzione è quella di essere soddisfatti di noi stessi e cercare di spostare un po’ più in alto l’asticella, dal punto di vista artistico.

Per chiudere, ti chiedo: se doveste fare un bilancio dei vostri anni di attività, cambiereste qualcosa del vostro percorso artistico? Se sì, cosa? E in ogni caso, perché?

 

Dal punto di vista artistico non cambierei assolutamente niente, perché penso che tutto quello che è venuto fuori sia veramente molto spontaneo. Mi riferisco alle canzoni, ai dischi e alle scelte artistiche fatte.
Dal punto di vista delle collaborazioni professionali, sì, perché a volte abbiamo sbagliato a collaborare magari con una o più persone: tecnici o discografici o altro. Se potessimo tornare indietro, sicuramente con l’esperienza che abbiamo adesso, certamente alcuni errori non li commetteremmo. Ma quando sei al primo album firmi qualsiasi cosa ti mettano davanti pur di iniziare, pur di sapere che il tuo disco sarà pubblicato e avrà recensioni e ne parleranno i giornali.

Ti ringrazio e ci vediamo a MArteLive.
Certo. Grazie a te dell’intervista.

Chiara Macchiarulo

 

Chiara Macchiarulo, martasuitubi, martelive 2010

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