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Quattro passi a Sud e arriva anche il MArteLive Italia- V serata 2009

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La spatola di Baudelaire ed i falsi Modì

S.DeCarolisSEZIONE PITTURA- Serena DeCarolis, fotorealista ma non iperrealista, ha realizzato una stupenda tela con il primis-simo piano d’un tizio, nei cui occhialoni si legge, oltre al suo sguardo freddo, anche il riflesso di un centro commerciale sulla Casilina, come rivelato dalla stessa artista, autrice anche della foto. Il tipo in questione, più che un suo amico, appare come un pilota col collo coperto da sciarpe per proteggersi le tonsille, e nei cui occhiali si scorge il riflesso delle modernissime tribune d’un Gran Premio. E’ invece questo è solo un nostro delirio interpretativo, ma andiamo avanti, nonostante tutto! Nel secondo quadro esibito c’è il volto d’un uomo barbuto con lo sguardo mediamente corrucciato, posizionato tutto a destra e dipinto tono su tono mentre a sinistra il colore lavanda dello sfondo si espande senza offrire appigli allo sguardo. Dal vivo la pittrice ritraeva una donna di colore vestita con un abito a fantasia multicolore girata ad osservare qualcosa alla sua destra. La DeCarolis predilige i soggetti sfuggenti, scegliendo fotografie non banali in cui l’espressione del soggetto nasconda qualcosa.

Luca Morici da qualche tempo dipinge prevalentemente a spatola, dopo aver scoperto quasi ca-sualmente i vantaggi di questa tecnica. Nel suo “Teatrino napoletano”, allegoria dell’essere uma-no che gli è valso la selezione per MArte Live da parte dell’Accademia di Macerata, è un pupo a muovere i fili che fanno muovere il puparo, che a sua volta ha la mano destra infilata in un pul-cinella in cui infonde lo spirito. Non c’è dubbio che sia una catena di persone, di circostanze e di poteri a determinare molte mosse, nei burrattini di carne. La lavorazione è portata avanti su uno sfondo monocromo color terra di siena schiarito col bianco, un colore simile alla nocciola su cui, spiega l’artista parlando con entusiasmo della sua manualità e della cromìa scelta, tutta la famiglia dei marroni e degli ocra spiccano e sono valorizzati. Ai due angoli superiori, una spirale arancione brilla come il sole del golfo campano ed una conchiglia a chiocciola simboleggia un po’ forzosamente l’evoluzione umana. Anche il ritratto di Roy Paci, prima prova a spatola di Morici, è reso con calore e vigore nel buio dello sfondo, attraverso tanti piccoli tocchi che rimandano le good vibrations di una serata jazz, come in “Jazz contrabbasso” che ritrae un veterano dello strumento intento a estrarne note in maniche di camicia. Qui, come in altri pezzi, lo sfondo si arriccia in volute che sembrano emanazioni di fumo, dipinte in punta di pennello, a volte quasi a secco. Capita anche nel dipinto lavorato ieri sera, 26/5/2009, un ritratto di Mick Jagger preso da un libro fotografico sui Rolling Stones. Il leader del più longevo gruppo del rock è colto nell’atto di stendere il braccio col microfono in mano, e la precisione con cui il soggetto è suggerito ma non definito è notevole e invoca la partecipazione dello spettatore, chiamato interattivamente a com-pletare la visione divenendone in qualche misura co-autore: le pieghe della giacca ed i bottoni del panciotto, l’incarnato del cantante e la mano col microfono sono rappresentati in modo da riflettere la ruvida energia del momento.

Ilaria Meli lavora olio su tela, con strati corposi di colore, incurante dei grumi e della difficile sovrapponibilità di alcune forme sui colori più scuri, almeno così pensavamo. La Meli però distribuisce tanto generosamente il colore, anche quello delle scarpe rosse da donna o della carta da gioco sul pavimento scuro, da ridurre il rischio che il colore di fondo traspaia. Ma invece l’artista stessa dice che le scarpe non sono state dipinte sopra il fondo, e dunque sarebbe tutto regolare, tranne il disegno che allora avrebbe anche potuto essere più preciso. Ci riferiamo alla interessante “Natura morta con sedia ed oggetti decontestualizzati”: una composizione d’altri tempi con uno scialle sulla spalliera, un giornale ed anche un ramo con fiori rossi poggiato sul piano che presenta anch’esso, a voler essere pignoli, qualche problema per la sovrapposizione di due spessi strati di pigmento nello stesso punto, pur non impedendo al sentimentalismo sospeso dell’immagine di giungere all’osservatore. La pittrice si è formata all’Accademia sotto la guida di Celestino Ferraresi, un esponente minore della Scuola Romana, corrente pittorica che infatti esercita su di lei una forte influenza, evidente soprattutto nella sua “Veduta del Colle Palatino”. Nel quadro dipinto live l’artista ha inteso trattare il tema dell’anoressia, malattia di profilo sociale di cui sta soffrendo attualmente una sua amica, ma il risultato è stato più grottesco di quanto ci saremmo aspettati: il volto della donna era una caricatura feroce coi denti larghi; la figura, vestita d’una tunica blu con una strana fantasia, teneva tra le mani un fiore mezzo appassiuto dal gambo lunghissimo e un po’ piegato.

Nike Alghisio, provetta illustratrice che lavora con tecniche miste che vanno dal collage alle IMG_0508_N.Alghisio_bmatite, intitola i suoi bozzetti “Love is a dead lamb” (con parti del teschio “smontato” di un agnel-lo), e “Carne da macello” (figure di donna seminude, dalla lingerie moderatamente trasgressiva e la posa slanciata), ma col suo quadro neo-simbolista “Folie Baudelaire: spleen 2000” (titolo tratto dal libro di Roberto Cavasso) attualizza il clima decadente di fine ‘800 stabilendo un paral-lelismo col malessere ostentato del nostro tempo. L’uomo con in mano un bicchiere di vino, nudo dalla cintola iun su, sembra un giovane Marlon Brando indeciso tra auto-affermazione solipsista e abbandono alla marea nefasta dei ricordi, di cui il tatuaggio con donna piangente è l’emblema inciso nella carne; la ragazza bionda con la spallina dell’abito di seta calata guarda altrove ed entrambi si danno le spalle in un quadro affogato nel rosso rubino e cardinale, in cui il disegno è sicuro, e la “messa in scena” è cinematografica. Il “Cuore spaziale” è un omaggio a Lucio Fontana, ed infatti si intitola così perchè la tela, lì dove c’è il cuore anatomico grigio bluastro, è tagliata verticalmente mostrando una spazialità dell’anima che va ben oltre la tela e affonda le sue radici venose nell’ambiente reale; il taglio è bagnato da scolature di rosso sanguigno, perchè in effetti certe ferite sanguinano troppo a lungo, troppo. L’artista a volte procede con sottili pen-nellate per definire il chiaroscuro, versione pittorica di un tratteggio di cui sembra padrona, così come del rapporto tra impatto visivo e pulizia del segno.

Carleyre Weber esegue perfino su commissione delle tele in cui la relazione tra spazi vuoti, forme geometriche e stesura irregolare del colore si esprime in un astrattismio informale che ricorre anche a zone sbiadite per affermare in modo probabilmente non compiuto la libertà di far interagire colori e materiali extra-pittorici in tele fin troppo rarefatte. Nel quadro dipinto dal vivo la Weber, giovanissima, peraltro, si è spinta al punto di far attraversare la parte centrale della tela da tiranti di fil di ferro, per poi, una volta incollato sulla tela (coprendo uno dei fili metallici) una toppa simile nel colore ad una pelle di daino stirata e unta, si dava a riempire l’ampio vuoto circo-stante con una campitura verde pistacchio e con una modulazione diafana e freddissima di ocra, crema e tanto bianco coagulato, su cui talvolta interveniva con segni a penna o incisi col manico del pennello che dovrebbero essere enigmatici, in un insieme che invece fa pensare a sagome pallide anni ’50 di chi voleva riempire il Wisconsin, terra d’origine della Weber, con insegne di sperduti motel fatti di alluminio e decorati con tinte pastello chiaro.

Valentina Moriconi ieri sera inseriva forme piatte quadrate o lunghe e sagomate e sottili stecche di legno nel quadro, trattandole come elementi di una composizione alla Kandinsky in cui le tracce di disegno e le fughe di colore si intersecano determinando trasformismi dello spazio e dell’emozione in equilibrio precario. Si sono sovrapposti all’intreccio di sfumature anche dei numeri applicati con i trasferibili, forse indici quantitativi di velocità tangenziali, perchè una forma rotonda sulla destra (ma il quadro può essere orientatoi a piacere, temo) sembrava un rotore scivolato fuori dalla sua sede ingegneristica ed inceppatosi tra scanalature di vettori di forza. La pittrice afferma di richiamarsi al surrealismo, soprattutto come disposizione “a buttar fuori”. Con noi sfonda un portone spalancato! Moriconi dimostra un buon senso del colore e delle forme fluide, anche se la stesura del colore in alcune zone di un suo quadro ci è sembrata imperfetta, mentre in un altro la crescita di una vegetazione di tipo ignoto è limitata da tre corde dipinte in senso orizzontale, una limitazione di cui l’autrice nel suo atteggiamento relazionale, sembra non soffrire, benchè la strutturazione accademica che il suo cervello sta ricevendo dalla facoltà di Architettura l’abbia orientata nel quadro dipinto live, verso uno stile blandamente costruttivista o rigidamente kandiskyano, appunto.

Margherita Matticari ama Pollock e Schifano ma in “Changements” ha incollato su una tela dipinta di nero con dripping pure nero, le estremità di strisce rosse producendo delle onde a forma di campana statistica. Però pare che il suo pallino del momento sia lavorare con materiale prelevato dai migliori negozi di ferramenta. Ieri sera, in particolare, cercava di dare l’impressione, grazie alla disposizione degli elementi, che due lastre di metallo quadrate, inclinate, possano far cadere giù una cascata di rondelle e bulloncini. Possono, possono. Non indispettita, ma anzi compiaciuta da questa rappresentazione di una caduta rovinosa di ferraglia, la pittrice-bricoleur ha lasciato sgocciolare su questa distribuzione semi-casuale di materiale solido una robusta dose di vernice arancio, tono su tono sull’arancio dello sfondo.

Silvia Larghi con “Fondi di caffè” fa di una tazzina bianca un manifesto pop essenziale, usando l’oggetto come occasione di un’analisi della forma più che come riflessione su pause rubate in giornate nevrotizzanti. Un minimalismo più sofferto sembra invece appartenere a “1 donna” che prende corpo da un’applicazione di carta sulla tela e si stacca debolmente rosa dal fondo bianco, grazie a due zone a collage ottenute con carta vecchia di giornale. Esperimento labilmente post-cubo-dadaista, intrigante proprio perchè accennato. La Larghi dipingeva ieri, live, un’altra donna, dalla testa imparentata con le false sculture di Modigliani; questo quadro le stava dando parecchi grattacapi, per cui cogliamo l’occasione per ricordarle come, a differenza dei ragazzi che crea-rono la prima delle tre false teste di Modì, Angelo Froglia, un pittore livornese lavoratore portuale per necessità, dichiarò che la sua non voleva essere una burla, ma che si trattava di un'”operazione estetica” mirata a verificare “fino a che punto la gente, i critici, i mass-media creano dei miti”.

(Marco Settembre)

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