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Jazz cantautoriale alla VI serata MArteLive 2008 con Piji

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Volenti o nolenti, pittura sì, ma Live!

Federica Ubaldo con un tratto assai riconoscibile, raffigura in una ritrattistica in bianco e nero quasi neo-gotica personaggi avvizziti che sono, volenti o nolenti, parte di un mondo ingrato che gli screpola il contorno degli occhi e le labbra e li fa apparire in flashes terrei e rivelatori. La pittrice mette allo scoperto la spina dorsale dei soggetti, consumati da una cattiveria che gli essicca persino le mammelle. L’artista che ha tra le sue fonti d’ispirazione Lynch, Schiele e la musica dei Radiohead, ritiene, d’altronde, che l’essere umano si dimostri spesso niente più d’una macchina idraulica da cui entrano ed escono sciocchezze o peggio, in un moto continuo che non lascia spazio ad una commiserazione se non passeggera. Forse per ricordarsene, alcuni dei suoi per-sonaggi si sono applicati un piercing in fronte, a mo’ di memento mori, ma il dato più estraniante è la metafisica del tubo di cui la Ubaldo si fa alfiere sottolineando come la comunicazione non sia che una connessione artificiale tra organi tra cui il cervello talvolta incautamente estroflesso, e condotti tubolari, appunto, in cui la nostra voce spesso si perde in echi rauchi e senza pro.

Antonio Guzzardo, prossimo al diploma dell’Accademia, di recente si è ispirato liberamente alle locandine dei film del geniaccio David Lynch; martedì 3 Giugno, lavorando il dipinto dedicato a “Fuoco, cammina con me”, ha utilizzato una tecnica più estemporanea e diretta, in considerazione delle esigenze d’un live event. Il suo stile di solito è grafico relativamente alla stesura del colore, e cinematografico rispetto al taglio con cui presenta i volti dei suoi soggetti, che emergono dal buio con l’apparenza di un primo piano in una pellicola bruciata. Il colore steso in zone piattissime, fornisce una tridimensionalità di sintesi a queste fattezze da copertina (si tratta di attori, anche se non riconoscibili) cristallizzandosi in fasce frammentate che riflettono le diverse zone d’ombra percepite sullo scatto fotografico di partenza. Prima di questa serie, Guzzardo amava comunque digitalizzare fotografie di oggetti per poi operare al computer una astrattizzazione progressiva di tali immagini, trasferendole infine su tela come se fossero fantasmi irreali di porzioni di realtà iperrealisticamente catturate, suggerendo filosoficamente, come in Blow up, la dissoluzione del dato concreto dovuta all’accanimento dei mezzi di riproduzione.

Massimo Celli alterna l’acrilico a gessetti e pastelli per ottenere sfrontate rappresenazioni di tono satirico, tra il pop e il grottesco; energumeni mostruosi coi denti scoperti attentano alle residue virtù di donzelle non sprovvedute: uno di loro sguinzaglia una lingua chilometrica, un altro simbo-leggia il qualunquismo dell’uomo eterosessuale medio italiano, mentre la donna tatticamente sde-gnosa viene mostrata così come viene tramandata dalla vulgata mediatica. In un’altra tela, sei politici banchettano col cittadino italiano tagliato a fette ma stranamente ancora rappresentato con gli attributi al loro posto mentre in realtà – come riconosce lo stesso artista – “se ci lasciamo sfruttare la colpa è di chi quei gingilli non li ha”. Diplomato allo IED, Celli, in un’ottica spe-rimentale, a volte dipinge su un sostrato di carta applicata sulla tela per ottenere anche un effetto moderatamente materico, che conferisce a certi suoi lavori l’aspetto di deformità picassiane prelevate da affissioni murali.

Luigi Dragonetti, illustratore di ormai provata esperienza, lavora su tela senza telaio. Uscito dal-l’Accademia, ha operato in campo editoriale e pubblicitario, mettendo a frutto le sue scelte di rigore tecnico: impiega solo un medium pìittorico per volta, acquerello e tempera acrilica per lo più. I suoi elaborati, molto fini e dettagliati, si giovano costantemente di un’atmosfera onirica e di una certa morbidezza delle forme, ma l’artista si dichiara sempre pronto ad adeguarsi alle esi-genze del committente, da buon professionista. Mentre è notevole il rilievo tridimensionale che Dragonetti riesce a conferire alle sue figurazioni, sempre dense ed intense cromaticamente, ri-sulta sorprendente per un giovane la saggezza con cui dichiara di rifuggire dagli eccessi delle trasgressioni sia formali che contenutistiche, che a suo dire devono essere limitate. Questo ci raccomanda mentre procede pazientemente nel suo acquerello, velatura dopo velatura.
Francesca Schifano utilizza frammenti di decollage montati su tela per poi stampigliarvi sopra con una tecnica che sembra xilografica, figure indecidibili, tra l’ironico e l’alienato, probabilmente lacerati o spiegazzati dentro come la carta su cui non riescono a riposare neanche forse in posizione fetale, come nell’autoritratto minimale dell’autrice. In alcuni casi le figure sono contestualizzate in periferie urbane estremamente stilizzate, che non lasciano scampo neanche agli animatori culturali, come dimostrano i due esemplari in cui soino effigiati un Amleto col tescio in mano, ed un teschio con la testa di Amleto poggiata sul palmo. In quale teatro di periferia può andare in scena una tale acre rappresentazione? La Schifano è anche autrice di un libro d’arte, intitolato “Tra vita e morte”, ma anziché rifletterci seriamente, preferisce di gran lunga continuare ad ispirarsi al Professor Bad Trip, il suo maestro di riferimento (a parte quelli conosciuti allo IED), un grande dell’underground scomparso nel 2006 ma di cui il ricordo non può spegnersi malgrado le tante mutazioni del disordine.

Mr. Caccio è un provetto aerografista che si muove sul terreno del figurativo scegliendo ecletticamente soggetti e stili ma sempre dando evidenza iperrealistica alle sue visioni, a cui dona vita con la sapiente modulazione degli spruzzi del suo strumento. I suoi modelli sono i colossi della pittura rinascimentale; si spiegherebbe così il ricorso a fondi oscuri o eterei da cui le forme emergono a volte con accentuata sensualità. Autodidatta, sin dai 12 anni si è lasciato pervadere dal messaggio delle filosofie orientali, fino a giungere ad un autoritratto in cui l’artista appare effigiato in primissimo piano, chiuso in un riquadro, accanto alla scritta in sanscrito NAMASTE, ovvero: Mi inchino alla divinità che è in te. Esemplare caso di un napoletano-tibetano, sospeso tra questo ed un altro mondo (citiamo dal suo blog su MySpace), che riesce ad essere di umore trionfante: ed a ragione, visto che l’esattezza della sua tecnica gli consente di restituire all’occhio distratto anche le più intime e sottili pieghe del vestito setoso d’una donna dell’umore giusto o enumerare, nell’autoritratto, i singoli peli dei suoi baffetti!

(Marco Settembre)

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