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Emerson, Lake & Powell

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il7A sorpresa come al solito, torniamo ad occuparci di un disco prog del passato, ma stavolta non siamo andati a pescare nei ruggenti anni ’70, ma piuttosto recensiamo un’opera realizzata nel 1986, e soprattutto non un capolavoro assoluto, forse proprio per fare un dispettuccio goliardico a tutti quelli che si ostinano a disconoscere il prestigio di personaggi come Ian McDonald o Mike Rutherford, a minimizzare la portata innovativa di un certo tipo di linguaggio musicale, e a non perdere l’occasione per ricordare le fasi di declino dei gruppi più acclamati.

Un atteggiamento, il loro, dovuto alla convinzione che il rock, nel momento in cui si arricchisce artisticamente e si fa tecnico ed aumenta il suo potere di suggestione, sia meno “vero” di quello che si misura con poche note e una carica sociale più eversiva.
Ebbene, stavolta parleremo di come un gruppo prog tra i più autocelebrativi, gli Emerson, Lake & Palmer, affronta un (provvisorio) cambio di formazione e la nuova piega imposta dallo scenario degli anni ’80, finendo col produrre non un feticcio intoccabile come Tarkus (già recensito su Marte Magazine), Trilogy o come Brain salad surgery, tanto per fare tre esempi, ma un disco godibile, che si confronta con successo con gli “anni di plastica”. Il progetto ELPowell, Emerson_Lake__Powellabbreviazione forzosamente rimaneggiata della gloriosa sigla ELP (dalle iniziali dei tre musicisti originari), nacque quando Keith Emerson, che si contende il titolo di tastierista più virtuoso e pomposo di tutto il prog anni ’70 col suo collega Rick Wakeman degli Yes, e Greg Lake, il bassista, chitarrista e cantante già entrato nel mito per esser stato co-starring nel formidabile disco d’esordio dei King Crimson, pianificarono di riformare il loro trio nel 1985, non trovando però la disponibilità del terzo elemento, il batterista Carl Palmer, all’inizio della carriera noto per aver suonato con gli Atomic Rooster (
un gruppo di hard rock guidato dal tastierista Vincent Crane), ed in quel momento impegnato nel supergruppo Asia, che, formato anche da due ex-membri degli Yes e da uno dei King Crimson, aveva conosciuto un grande successo commerciale, e a cui contrattualmente Palmer era ancora legato.
Dopo una serie di audizioni, Emerson e Lake contattarono Cozy Powell (un amico di vecchia data di Emer-son) che vantava la militanza nel Jeff Beck Group, nei Rainbow  e negli Whitesnake e che quindi poteva avere la mano sufficientemente pesante e veloce per sostenere con la giusta inventiva il barocchismo non di rado possente delle “fughe” di Emerson, condite dal lirismo solenne di Lake.

La band ha sempre sostenuto di non aver cercato un batterista che avesse necessariamente il cognome che iniziasse con la P, i due fondatori insistettero a dichiarare che il fatto, che gli consentì di mantenere la sigla tradizionale, fu una coincidenza fortunata, ma qualche volta, scherzando, asserirono di aver tentato degli approcci con Gene Prupa  (anziché Krupa), Phil Pollins e Ringo Parr, prima di ottenere il sì da Powell. Altro aneddoto assurdo: poco dopo l’inizio delle rehearsals, lo studio in campagna di Emerson fu distrutto da un trattore sfuggito al controllo, e si dovette ri-registrare alcune parti del lavoro, circostanza che fece esclamare al tastierista: “Forse dovremmo chiamare l’album “Emerson, Lake & Plow”, laddove plow, o plough, in inglese significa aratro! Ad ogni buon conto, infatti, bisognava essere pratici, ed il complesso e appagante approccio pro-gressive andava combinato con un sound efficiente, tanto da poter reggere la sfida della nuova epoca nella radiofonia, dominata dalle stazioni AOR, dedicate all’Adult Oriented Rock, cioè caratterizzate da una proposta di brani classici del rock ma dotati di un potenziale commerciale.
Anche la copertina del disco, molto meno artistica delle precedenti, anzi di una secchezza grafica un po’ avvilente, una sorta di parente povero e depresso della triade di ritratti dei tre musicisti visibile invece nell’artwork del più ricco Trilogy, riflette la prevalenza di immagini “sintetiche” e “asciutte” nelle copertine rock di quegli anni (si pensi ad esempio ad Abacab dei Genesis), tuttavia anche molti fan di vecchia data del gruppo, che inizialmente sottostimarono questo lavoro, dovettero ricredersi ed abituarsi tra l’altro a pensare che un disco, come si dice dei libri, non può essere valutato (solo) dalla copertina, anche se le covers degli anni ’70 spesso da sole valevano metà del prezzo (pensiamo ad esempio a Point of know return dei Kansas).
Ad un esame più attento, le cose sembrano insomma assumere un diverso rilievo: la grafica di copertina pare derivi dal “corporate logo” usato negli anni ’30 da Haus Bergmann, un industriale tedesco del ramo dei tabacchi, e quanto al nome di Cozy Powell al posto di quello di Carl Palmer, il suo lavoro è assolutamente lodevole, tanto da potersi dire che non fa rimpiangere l’illustre “titolare” del ruolo: a voler pesare col bilancino, si perde qualcosa in inventiva e precisione,  si compensa con potenza e dinamica. Secondo alcuni, è anche l’ultimo disco in cui si può ascoltare la voce di Lake sui suoi eccellenti standards qualitativi, perché già col successivo “Black moon” del 1992, col trio ricostituito, la sua voce iniziò a diventare più profonda, rauca e sgradevole; giudizio che non mi trova d’accordo perché in “Black moon” il terzetto originale mi apparve in gran forma, tanto che la flessione della voce di Lake la interpretai come il brillante adattamento tonale alle ingiurie del tempo che passa (per tutti). Ma anche se fosse così, intanto il disco “Emerson, Lake & Powell” risulta tra i dischi più genuinamente prog di tutta la decade ‘80.

L’opening del CD è affidato a “The score”, trionfale pezzo di nove minuti con tastiere spesso in modalità “squilli di tromba”, che crea dal nulla un’atmosfera elettrizzante da nuovi eroi impegnati in sfide senza quartiere forse in qualche metropoli contemporanea tutta coinvolta in qualche accanitissimo quanto epocale derby cittadino (“The score” significa “il punteggio”). La ribollente ritmica prodotta dal basso fa pensare che potrebbe essere in ballo qualcosa di più grosso ancora, forse la voce è di qualche banditore selvaggio vestito con una salopette di pelle umana, che in un’arena enorme ma abbandonata esorta selvaggiamente ma con sovrana indifferenza dei malcapitati forestieri a combattere l’uno contro l’altro per la loro stessa vita, come in una versione ancora più pompata di “Mad Max – Oltre la sfera del tuono”. Ecco una citazione: ”What’s youelp_powell_first_concert_frontr game? Alright you’ve got it! Take you aim! Alright you shot it!” Il riff ripetuto di tastiera, lo strumento con cui Emerson felicemente ci sopraffà, infine si articola in una progressione melodica estrema-mente autocelebrativa, come se nel clima rovente d’acciaio e gomme bruciate, il trio trovasse il contesto per la conflagrazione della loro sfera di glorificazioni sicuramente “scoattanti” anche se di impronta classicheggiante. Ci scappa anche l’autocitazione, per riallacciarsi con smisurata ridondanza al live sfacciato che portava come titolo la frase urlata dal presentatore all’inizio dei concerti, negli anni dell’apice: “Welcome back my friends, to the show that never ends!”, e qui come in “Brain salad surgery”, il delirio sonoro in cui per la prima volta si sentì la frase, la voce di Lake svetta: “Qual è il tuo nome? Non posso dimenticarlo! Sono stato lì ed ora di nuovo son tornato, e non avrò rimpianti, per molto tempo è stato il mio “bentornati amici miei allo spettacolo che non finisce mai!”” Parola di un tanghero post-atomico spaccatutto, che conosce il punteggio e che “sicuramente” farebbe “una (gran) giocata, se solo potessi avvicinarmi!” La posta in gioco per tali cimenti da avventurieri non di rado è una donna tra le cui braccia andarsi ad ubriacare e godersi il bottino (non dimentichiamo il brano intitolato Pirati che i tre inclusero nel doppio “Works – volume 1”).
L’eccesso tastie-ristico di Emerson non si acquieta col finire del brano, perché esso è legato al successivo “Learning to fly”, pezzo più vicino alla forma-canzone, con cui Lake, coi suoi versi, ci proietta nel caos metropolitano in cui alcuni pericoli sono latenti, altri sono annunciati da segnali rutilanti, false promesse vengono sventolate, e ad ogni giro d’orizzonte si rischia di perdersi tra personaggi e travestimenti simbolici: “L’energia arde nel cuore della città, sei acquattato tra le ombre o ti protendi verso il cielo; stavolta la promessa non è solo illusione, sono diretto alla gloria, sto imparando a volare!” Qui è l’attacco della voce all’inizio di ogni strofa ad essere come uno squillo di tromba che si solleva dall’anonimità per accedere verso i modi e gli spazi giusti; quelli che conducono al successo? Può darsi, ma è facile che la propria visione sia distorta perché nelle “Pictures of a city” di crimsoniana memoria i labirinti di specchi possono far perdere la trebisonda anche al più atletico e spavaldo tra i cani sciolti, e infatti: “Vedo una figura lì, si volta e mi guarda, io mi fermo e la fisso. Cerco la sanità, per spezzare la forza di gravità”. Quando il volo anche metaforico si arresta, si cade, infatti. Le altre strofe, quelle che conducono al verso portante “learning to fly”, sono declamatorie, il personaggio narrante puntella la realtà sfuggente con uno sguardo sicuro dardeggiato qua e là nello scenario noir postmoderno col tono della voce e la cadenza di chi si fermerà solo quando vedrà le brutte! D’altronde ai loro live si poteva solo provare stupore, ammirazione e la vertigine di chi respira l’aria sottile per essere stati spedito in cima ad un organo marziano in vetta ad una cattedrale creata da un clone di Gaudì ibridato con uno di H. R: Giger, e questa considerazione vi apparirà meno oziosa se ricorderete che la cover di “Brain salad surgery” fu rea-lizzata proprio dall’artista svizzero creatore di “Alien”. Anche qui, la dinamica delle tastiere di Emerson, tra tono “strombettante” da corno inglese, e toni più gravi, è eccellente, ma il livello tecnico del pianista è uni-versalmente noto, tanto da esser stato classificato, l’abbiamo già accennato, come il più strabordante vir-tuoso dello strumento insieme a Rick Wakeman degli Yes, il quale dal canto suo aveva “la mano destra baciata dall’Onnipotente” (come mi disse un tempo un mio amico musicista), ma rispetto al quale Emerson appare forse più completo perché sicuramente “bimane”, il Jimi Hendrix dell’organo Hammond. “The mi-racle” è introdotto da uno sbuffo fumoso, su un effetto-vento; la situazione globale si fa sempre più difficile, nelle strofe grevi, e solo negli incisi è possibile respirare, per il resto la tensione è alta; in una sezione preparatoria si avanza tra colpi sordi in un tempo 4/4, e sul tappeto di tastiere con rifiniture di un Moog modalità mellotron la voce di Lake si azzarda a sperare in un miracolo, con lo human chorus accentuato, poi dopo una punteggiatura interlocutoria un andamento pesante si prolunga tra spezzoni di visioni sconfortanti mentre l’Hammond di Emerson ora guizza malato e ferrigno in spunti acid jazz, ed il tono epico e ma-gniloquente sembra animarsi di coraggio solo con l’invocazione di un miracolo che però va ricercato attiva-mente. “Touch and go” è la smash hit del disco: il sottofondo in mellotron conferisce un’aura di roboante sacralità ad una situazione in cui la massimizzazione del pericolo e l’imprevedibilità della situazione crano uno spettacolo ed un thrill da extreme fighter: “Tutti i sistemi passano, amici o nemici, dipende tutto dal tuo lancio dei dadi, viene senza preavviso come un UFO, stai correndo col demonio, è un “touch and go””, ovvero una situazione da 50 e 50, molto critica ed incerta! La frase musicale dominante, che si espande ed avvolge le strofe, è molto ben congegnata, e e tiene sulla corda spingendo all’esaltazione incosciente, è una sorta di tiritera trionfale, solenne e veloce che entra in testa e non si scaccia più. “Touch and go” ha anche un video definito da molti osservatori coltissimi “tamarro”, come diversi tra i video degli ELP, ritratti qui all’interno di una fabbrica mentre i loro gesti sono assimilati ai movimenti di operai del settore metallurgico, senza raccontare nulla se non la potenza irrefrenabile di queste note innervate da un mood prepotente e da una sezione ritmica massiccia. “Love blind” inizia piuttosto morbidamente anche se non si nasconde affatto la pericolosità dell’amore: “How far are you taking me this time, can’t you see that I’m love blind”; il brano è meno complesso ma è di sicura presa, un po’ come la tematica: “Vuoi sempre prendere tutto ma non ottieni nulla alla fine, non sottovalutare mai il prezzo dell’amore che offri in prestito, ti costerà tanto dolore, ti può far ammattire. Se calcoli il danno, le fratture non si ricompongono”. Il brano ha delle accelerazioni perché certe situazioni sono scivolose, si procede dritti come una spada senza pensare che ci si trova sul filo d’una lama; un po’ come questo appare sì come pop-rock ma spende con disinvoltura guascona una sapienza ed una focosa istintualità carica di passione romantica irrefrenabile, espressa dallo squillante, veloce e guizzante assolo di synth, che si ritrova, con un altro fraseggio, in coda al brano, dove serpeggia prima di sfumare. “Step aside” è invece un fantastico pezzo jazz vecchio stile, con la voce che con classe descrive la propria situazione da profugo notturno un po’ invisibile, che però non può essere scambiato per uno sciocco perché: “Maneggiami con cura, sono dinamite!..” L’uomo è uno di quelli che… regolano i conti, ma lo fa con la precisione e l’elegante fluidità di questo brano, che raccoglie la vena jazzata presente in “Works 1”, pen-siamo alla facciata curata da Palmer, e vi effonde la calibrata piacevolezza di tocco di Greg Lake. Il bassista, compositore e chitarrista acustico è assoluto protagonista nella successiva “Lay down your guns”, una ballata commovente nella migliore tradizione del gruppo, e come sempre composta appunto da lui, anche se nei credits della copia in mio possesso la musica viene attribuita ad Emerson, forse un errore dei grafici. Peraltro, di questo songwriter capace di lirismo solenne o romanticismo marpione, ancora adesso molte teen agers non si stancano di ammirare i boccoli o l’indolente masticata di chewing gum durante l’esecuzione della strepitosa ballad “Still… you turn me on” in un vecchio filmato live su You Tube. L’ultimo brano, “Mars, the bringer of war”, un sommovimento tellurico di quasi 8 minuti, rappresenta secondo me un punto problematico del CD, malgrado si debba tener presente che costituisce la riproposizione in chiave prog rock di una composizione classica di Gustav Holst (tratta da “The planets”) già interpretato da Lake insieme ai King Crimson durante la sua militanza sotto l’egida di Robert Fripp. Quando la compagnia discografica suggerì che gli ELPowell eseguissero questo pezzo Emerson rifiutò, dicendo che sarebbe stato non come “Pictures at an exhibition”, uno dei maggiori album ELPowelldel gruppo, ispirato alla suite di Mussorgski, ma piuttosto un po’ come ELP Plays the Classics o Richard Clayderman Plays “Clair de Lune”. Però, dopo che Powell mostrò al mago delle tastiere un video in cui una delle sue prime band si cimentava con questa composizione, Emerson accettò di eseguirla. Tuttavia a noi personalmente appare ultrapotente, con un crescendo vorticoso e vertiginoso ma forse priva di un tema musicale che conquisti. Tuttavia c’è chi, non avendo mai ascoltato l’originale versione classica, non avrebbe mai immaginato che il pezzo non fosse stato concepito per i sintetizzatori, tanto funziona
perfettamente nella versione di Emerson.

Cozy Powell morì il 5 aprile del 1998 in una giornata di pioggia, perdendo il controllo della sua automobile sull’autostrada nei pressi di Bristol.
“Emerson, Lake & Powell” è valido, non diversamente dal disco “Drama”, prodotto dagli Yes in formazione rimaneggiata, e non fu registrato un secondo disco (restano una coppia di bootlegs poi ufficializzati nel 2003) a causa delle solite dispute interne che portarono alla rottura tra gruppo e management. Due anni più tardi Palmer tornò e fu Lake ad essere assente; il gruppo trovò un sostituto in Robert Berry, ma la pubblicazione risultante, a nome “Three”, non ci convince affatto, apparendo un prodotto senz’anima, di un prevalente pop-rock sorprendentemente privo di spunti davvero memorabili e dello spessore strumentale tipico del gruppo; a quanto pare, le capacità compositive di Lake non erano facilmente rimpiazzabili. I tre membri originari si ri-presentarono uniti solo nel 1992 con “Black moon”, con tanto di presentazione, in Italia, alla “Domenica In” di Pippo Baudo..! e fu un grande ritorno, sulla falsariga di questo “ELPowell”, ma ovviamente, ancora migliore. Fidatevi, altri-menti cercate su You Tube, il video della title track, ovviamente “tamarro”!

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