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Australia, regia di Baz Luhrmann

CINEMA- “Se non hai amore nel tuo cuore non hai niente, non hai sogni, non hai storie…niente”: avete presente quei quadri che solitamente si vendono per le strade del centro storico? A Roma, specialmente vicino alla fontana di Trevi, artisti in ginocchio sui sanpietrini creano dei veri e propri dipinti con le loro bombolette spray.
Ciò che ne esce generalmente fuori è un paesaggio in bilico tra realtà e fantasia, carico di effetti tanto bizzarri quanto attraenti.
E’ così che si potrebbe descrivere Australia, l’ultima pellicola del nostro regista visionario per eccellenza Baz Luhrmann: un eterno sfondo magico, dai contorni irreali, quasi da fiaba.

Siamo alle porte della Seconda Guerra Mondiale, pochi istanti e Pearl Harbor sarà attaccata dai Giapponesi.
L’aristocratica Sarah Ashley (Nicole Kidman), indispettita dai presunti tradimenti del marito, decide di raggiungerlo nella sua proprietà terriera in Australia, pronta a riscuotere ciò che le spetta dalla vendita di quest’ultima.
Tuttavia, al suo arrivo, la Lady dovrà affrontare non solo la morte inaspettata del consorte, ma anche il furto che, Neil Fletcher (David Wenham) e il suo capo King Carney (Bryan Brown), eseguono nei confronti dell’intero bestiame di Faraway Downs.
Sarah per salvare la sua proprietà terriera e pareggiare i conti, sarà disposta a scortare 1500 vacche fino al porto di Darwin e in suo soccorso giungeranno il rude mandriano Drover (Hugh Jackman) e il piccolo mulatto Nullah (Brandon Walters).

Da sempre, Baz Luhrmann ha basato le sue poche opere sul tema centrale dell’amore. Sognatore e dallo spirito puramente Bohémien, questo regista riesce a regalarci ogni volta un mix di folli risate, sospiri languidi e lacrime finali a go go.
Australia sembrerebbe riproporre lo slogan “verità, bellezza, libertà e amore”, ma questo non è il musical Moulin Rouge e di certo non siamo nella sfarzosa e lussureggiante Parigi.
Ciò che ci resta è l’ex bella cortigiana di Can Can, Lady Nicole Kidman, che depone i suoi sfavillanti diamanti per indossare un cappello da Cow Boy, degli stivalacci impolverati, un bel frustino e delle labbra fin troppo gonfiate che ci piacevano di più nella loro forma originale.
Per il resto sono tanti i temi scottanti che toccano la pellicola di Luhrmann: dall’amore che avvolge due persone dal passato burrascoso, al piccolo Nullah che rappresenta le cosiddette “generazioni rubate”, ovvero i sangue-misti figli di aborigeni e di uomini bianchi, fino al bombardamento dei Giapponesi nella città di Darwin.

Il punto non è l’esagerazione da parte di Luhrmann a volere inserire così tante tematiche in una pellicola sola, ma forse la sua incapacità nel riassumere in maniera semplice i vari eventi, così da poter favorire la durata filmica, spropositata, che appesantisce di certo il racconto che nel prologo risultava fresco ed immediato, e contornato da una regia stilistica del tutto rispettabile.
Luhrmann riesce a creare un vero “pasticcio artistico”, come i quadri più incomprensibili di Kandinsky, portandoci nel suo mondo pieno di sogni e di speranze, proprio come quella canzone che si ripete continuamente per tutta la pellicola: “Somewhere over the Rainbow”.
Così Australia diventa in tutto e per tutto la copia di quei classici kolossal all’insegna del romanticismo, come Via col Vento, dove Tara si confonde con Faraway Downs e Rossella O’Hara condivide le difficoltà della guerra con una, meno snob, Sarah Ashley.
Il tutto segnato dalla grande citazione del Mago di Oz, che perseguita le vicende dei nostri protagonisti e li lega indissolubilmente l’uno all’altro, raggiungendo il nostro cuore tramite la tenerezza.

Spesso le citazioni sono vitali e vanno usate per non dimenticare mai la bellezza del passato e Luhrmann, come un bambino che gioca con le stelle cadenti, ci racconta la sua storia fatta di principi forti e indistruttibili.
La coppia Kidman-Jackman fa colpo per passionalità e coraggio, in un cast interamente australiano che segna anche la presenza del fu Faramir (Il Signore degli Anelli) e del fu cameo di Audrey (Moulin Rouge), ovvero David Wenham che rappresenta il cattivo più stupido nella storia dei film in costume.
Le canzoni magiche del piccolo Nullah giungeranno a noi, la dolcezza rude del mandriano ci rapirà e probabilmente riusciremo a ricordare che, volendo, ogni cosa è possibile, perché pellicole come Moulin Rouge capitano una volta ogni mille, ma di storie di sogni se ne ha bisogno tutti i giorni.

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